Il vecchio continuava a stare in piedi davanti al cancello dell’asilo ogni mattina, finché un giorno un’insegnante lo seguì e capì chi stava aspettando.

Per settimane, forse mesi, era stato solo parte dello scenario. Un uomo magro e curvo con un cappotto grigio logoro, un berretto di lana calcato sugli occhi e le mani intrecciate dietro la schiena. Stava dall’altra parte della strada rispetto all’asilo Little Steps, sempre nello stesso punto, sempre alla stessa ora: l’ora di entrata.
I genitori gli passavano accanto di corsa con i bambini assonnati in braccio. Le auto suonavano il clacson, le portiere sbattevano, c’era sempre qualcuno in ritardo al lavoro. E il vecchio se ne stava lì, a guardare, come se avesse paura di battere le palpebre.
All’inizio nessuno ci faceva caso. In una grande città si impara a non guardare troppo da vicino. Ma un martedì piovoso, Emma, una delle maestre, notò qualcosa che non poteva ignorare.
Un bambino piccolo di nome Leo entrò piangendo, stringendo una macchinina rotta. Mentre Emma lo consolava, guardò fuori dalla finestra e vide il vecchio che tirava fuori con cura qualcosa da una busta di plastica. Un secondo dopo, la stessa macchinina di Leo apparve nella mano del vecchio, solo che questa era nuova, pulita, di un rosso brillante.
Lui non attraversò la strada. Non chiamò Leo. Rimase lì, con le dita tremanti, tenendo il giocattolo in aria come se lo stesse dando, invisibilmente, a qualcuno dall’altra parte della strada.
Poi abbassò lentamente la mano, rimise la macchinina nella busta e si allontanò con passi brevi e stanchi.
Quella notte, Emma non riuscì a dormire. Continuava a vedere la sua mano in aria, il modo in cui le sue spalle si abbassavano quando si allontanava. La mattina dopo, lo cercò con lo sguardo.
Era lì. Pioggia o sole, era sempre lì.
A volte sollevava uno zaino invisibile.
A volte mimava di allacciarsi dei lacci invisibili.
A volte alzava semplicemente la mano in un timido saluto verso il cancello, mentre i genitori passavano in fretta, senza alzare lo sguardo.
Emma cominciò a chiedere in giro.
“Qualcuno di voi conosce quel vecchio fuori?” chiese ai genitori.
Loro scrollarono le spalle.
“È sempre lì, ma pensavo che stesse aspettando qualcun altro”, disse una madre.
“Ho semplicemente pensato che fosse dell’edificio dall’altra parte della strada”, mormorò un altro padre, già immerso in una telefonata di lavoro.
Nessuno sapeva il suo nome.
Una mattina, Leo corse alla finestra durante la lezione.
“Maestra Emma! Il nonno è di nuovo qui!”
Anche i bambini lo avevano notato. Lo chiamavano “il nonno silenzioso”. A volte lo salutavano con la mano. Lui non ricambiava mai direttamente, solo in quel modo strano ed esitante, come se avesse paura di essere visto.
La svolta arrivò in un giovedì freddo e luminoso.
Il vecchio non si limitò a stare lì a guardare. Prese qualcosa dalla sua borsa, un piccolo cestino blu, e lo aprì. Il vapore si alzò nell’aria fredda. Guardò la porta dell’asilo con tale fame e tenerezza che Emma sentì un nodo alla gola.
Alzò leggermente il cestino, come un’offerta.
Emma non ce la fece più.
Durante la pausa, si infilò il cappotto, disse alla collega che sarebbe tornata subito e attraversò la strada.
«Buongiorno», disse dolcemente quando fu abbastanza vicina.
Il vecchio sussultò, quasi lasciando cadere il cestino. Da vicino sembrava ancora più piccolo. I suoi occhi erano pallidi, acquosi, incorniciati da rughe profonde. Guardò Emma come se fosse stato sorpreso a fare qualcosa di vergognoso.
«Sono Emma. Lavoro all’asilo». Indicò l’edificio colorato.
Lui deglutì. «Lo so», sussurrò, con un accento leggero ma percettibile. «Sei tu che fai le trecce alla bambina… e porti lo zainetto rosso al bambino che corre sempre».
Aveva osservato tutto.
La voce di Emma si fece più dolce. «La gente si sta chiedendo… Stai aspettando qualcuno?».
Lui fissò il cancello. Per un lungo momento, Emma pensò che non avrebbe risposto.
Poi disse: «Sto aspettando mio nipote».
Il cuore di Emma si strinse. «Qual è tuo nipote?».
Lui fece un piccolo sorriso spezzato. «Non è qui».
Le parole rimasero sospese tra loro, più fredde dell’aria.
«Vuoi dire… che frequenta un altro asilo?» chiese Emma con cautela.
Il vecchio scosse la testa.
«Mi chiamo Daniel», disse, come se questo potesse spiegare tutto. «Mio nipote si chiamava Michael. Ora avrebbe cinque anni».
«Avrebbe».
Emma sentì gli occhi bruciare.
«È morto?» chiese, con un filo di voce.
Daniel annuì una volta, rapidamente, come se gli facesse male. «Tre anni fa. Incidente d’auto. Mio figlio e sua moglie si sono trasferiti dopo quello. In un altro Paese. Troppi ricordi, hanno detto». Strinse le dita attorno al cestino del pranzo fino a farlo tremare. «Hanno detto che devo dimenticare. Che non è salutare vivere nel passato».
Guardò l’asilo, le giacche minuscole appese alla porta, le scarpette allineate.
«Ma non riesco a dimenticare», sussurrò. «Ogni mattina mi sveglio alle sei. Cucino. Preparo il suo pranzo. È… un’abitudine. Il mio corpo lo fa prima che la mia mente possa fermarlo. E quando mi trovo nella mia cucina vuota, mi sembra di ucciderlo una seconda volta se lo butto via».
Le lacrime di Emma cominciarono a scorrere.

«Allora vengo qui», continuò Daniel. «Questo è l’asilo più vicino a casa mia. Mi fermo qui e immagino che lui sia uno di loro. Che sia in ritardo, che da un momento all’altro la porta si aprirà e lui griderà: “Nonno, hai dimenticato la mia arancia!”». Le sue labbra tremavano. «So che non lo farà. Ma per un’ora ogni mattina posso fingere che sia così».
Aprì il cestino del pranzo con le mani tremanti. Dentro c’era del cibo semplice: piccoli panini, un’arancia sbucciata, un biscotto spezzato a metà.
«Porti questo ogni giorno?», chiese Emma.
«Sì». Fece una risata impotente. «Quando torno a casa, lo mangio a tavola. Metto un secondo piatto. Gli parlo. I vicini pensano che io sia un vecchio pazzo. Forse hanno ragione».
Emma pensò a suo padre, solo in un’altra città, che insisteva nel dire che stava bene. Lo immaginò mentre cucinava per un bambino che non sarebbe mai venuto.
«Daniel», disse lei a bassa voce, «ti andrebbe… ti andrebbe di entrare?»
Lui alzò di scatto la testa, allarmato. «Entrare? No, no, non voglio disturbare. I bambini hanno le loro vite. Io sono solo…»
«Non disturba», lo interruppe Emma con dolcezza. «Venga. Solo per un momento».
Esitò così a lungo che lei stava per rinunciare. Poi, molto lentamente, annuì.
Dentro, i bambini stavano finendo la merenda. Quando Emma entrò con Daniel dietro di lei, la stanza rimase in silenzio per un secondo. Venti paia di occhi curiosi si voltarono verso il vecchio.
«Bambini», disse Emma con voce tremante ma ferma, «questo è Daniel. Gli manca molto suo nipote. Oggi ho pensato che potremmo condividere la merenda con lui».
Daniel cercò di protestare, ma una piccola mano si alzò.
Leo.
«È il nonno tranquillo della finestra?», chiese Leo.
«Sì», rispose Emma.
Leo scivolò giù dalla sedia, si avvicinò a Daniel e lo guardò dritto negli occhi.
«Mio nonno vive lontano», disse Leo con serietà. «Forse… potresti essere un po’ mio nonno quando stai fuori».
Qualcosa dentro Daniel si spezzò: Emma lo vide accadere, come una diga che cede. Le sue spalle tremarono, la sua bocca si contorse e per un terribile secondo pensò che sarebbe crollato.
Ma non fu così. Si inginocchiò molto lentamente per mettersi all’altezza di Leo.
«Mi farebbe piacere», disse con voce roca.
Leo guardò il cestino del pranzo. «Cos’è quello?»
«Il pranzo che ho preparato per mio nipote», rispose Daniel.
Leo aggrottò la fronte. «Ma lui è in paradiso, giusto? Mia mamma dice che le persone in paradiso non hanno bisogno di pranzare».
Alcuni bambini ridacchiarono. La schietta sincerità dei bambini.
Emma intervenne. «Forse possiamo aiutare», disse. «Forse, se Michael non ne ha bisogno, possiamo condividerlo, così non va sprecato».
Daniel sbatté rapidamente le palpebre.
«Volete mangiare il suo pranzo?», chiese con voce rotta.
Leo annuì con entusiasmo. «Possiamo, maestra Emma?».
In quella piccola stanza dai colori vivaci, con sedie minuscole e disegni fatti con le dita sulle pareti, un anziano aprì il cestino del pranzo di suo nipote e mise il cibo sul tavolo. I bambini si radunarono intorno, offrendo in cambio pezzi dei loro snack.
«Tieni, puoi avere la mia mela», disse una bambina.
«Ti do il mio biscotto», aggiunse un altro bambino.
Ben presto il tavolo si riempì di cibo disparato, piccole mani che si passavano pezzi avanti e indietro, briciole ovunque. Daniel sedeva su una sedia troppo piccola, con le ginocchia quasi al petto, le lacrime che gli scendevano silenziosamente sul viso mentre masticava un panino che sapeva di tre anni di dolore.
Nessuno lo prendeva in giro. Nessuno gli chiedeva di smettere di piangere.
Quando la merenda finì, Emma lo accompagnò alla porta.
“Puoi tornare”, gli disse. “Non solo per stare fuori. Se vuoi, puoi leggere loro una storia una volta alla settimana. Noi… noi non abbiamo molti nonni qui intorno”.
Daniel la guardò come se lei gli avesse dato qualcosa di inestimabile.
“Sei sicura?”, sussurrò.
“Sono sicura”.
Da quel giorno in poi, il vecchio continuò a venire all’asilo ogni mattina.
Ma ora, a volte, non si limitava a stare davanti al cancello.
A volte entrava, si sedeva in cerchio e leggeva libri illustrati con la sua voce attenta e dall’accento particolare, mentre venti bambini si sporgevano, pendendo dalle sue labbra.
Continuava a prepararsi il pranzo ogni giorno. Solo che ora non lo mangiava più da solo a un tavolo silenzioso. Lo apriva in una stanza rumorosa, circondato da manine, briciole e risate.
Non smise mai di sentire la mancanza di Michael. La sedia vuota al tavolo della sua cucina rimaneva lì, un dolore silenzioso che portava con sé.
Ma quando i genitori passavano di corsa davanti al cancello la mattina, non vedevano più uno strano vecchio che fissava i loro bambini.
Vedevano Daniel, il nonno delle storie, quello che aveva sempre un’arancia di riserva nella borsa e che salutava con la mano, ora in modo appropriato, quando il piccolo Leo gridava il suo nome.
E in qualche modo, nel mezzo di un rumoroso asilo pieno di bambini che non erano suoi, un vecchio a cui era stato ordinato di dimenticare trovò un modo più gentile per ricordare.
