Il vecchio che ogni sera sedeva da solo sulla panchina del parco giochi scriveva un nome sul suo taccuino, e un giorno piovoso mio figlio tornò a casa con quel nome scritto su un foglio di carta sgualcito

Il vecchio che ogni sera sedeva da solo sulla panchina del parco giochi scriveva un nome sul suo taccuino, e un giorno piovoso mio figlio tornò a casa con quel nome scritto su un foglio di carta sgualcito.

Per mesi l’avevo osservato dalla finestra del nostro appartamento. Era sempre lo stesso: cappotto blu scuro, berretto grigio, un bastone di legno appoggiato alla gamba. Arrivava quando i bambini stavano già correndo, si sedeva sulla panchina più lontana e li osservava in silenzio. A volte sorrideva, a volte muoveva le labbra come se stesse parlando con qualcuno invisibile.

Gli altri genitori bisbigliavano. Alcuni lo definivano strano. Altri dicevano che doveva essere solo. Qualche volta ho pensato di andare a chiedergli se avesse bisogno di aiuto, ma poi il mio telefono squillava, o Emma cadeva, o Leo iniziava a piangere, e il momento sfuggiva.

Una sera, mentre spingevo mio figlio Noah di sette anni sull’altalena, notai che il vecchio stava scrivendo qualcosa su un piccolo taccuino. Lentamente, con attenzione, quasi con riverenza. Quando una bambina rise lì vicino, lui si fermò, alzò lo sguardo e i suoi occhi si riempirono di un tale desiderio che sentii uno strano dolore al petto.

“Mamma, quel nonno è sempre qui”, disse Noah, seguendo il mio sguardo.

“Forse gli piacciono i bambini”, ho risposto vagamente, sistemando la sciarpa di Noah.

“Non ne ha”, ha dichiarato Noah con la sicurezza di un bambino che ha deciso qualcosa. “Altrimenti sarebbero con lui”.

Stavo per ridere, ma le parole mi morirono in gola quando vidi le mani del vecchio tremare mentre chiudeva il suo taccuino.

La prima vera svolta arrivò un martedì, quando il cielo era color cotone sporco. Cominciò a piovere proprio quando finì la scuola. Mi affrettai ad andare a prendere Noah, immaginando già scarpe bagnate e naso che colava. Invece lo trovai sotto la tettoia, con in mano un foglio di carta umido e gli occhi sgranati.

“Mamma”, sbottò non appena mi vide, “conosci una ragazza di nome Anna?”

Quel nome mi colpì come un sasso. Per un attimo il corridoio si inclinò. Deglutii a fatica. “Ci sono molte Anna, tesoro. Perché?”

Aprì il pugno. Sul foglio sgualcito, scritto con lettere tremolanti, c’era una sola parola: ANNA.

“Me l’ha dato il nonno del parco giochi”, spiegò. “Era fuori dal cancello della scuola. Mi ha chiesto il mio nome, poi mi ha dato questo e mi ha detto: ‘Per favore, mostralo a tua madre’. Poi se n’è andato”.

Presi il foglio, con le dita improvvisamente fredde. La scrittura era sottile, instabile. Lo stesso nome che avevo passato sette anni a cercare di non pronunciare ad alta voce.

Nostra figlia, Anna, era vissuta esattamente tre giorni.

Noah sapeva di aver avuto una sorella “che è in paradiso”, come gli avevamo detto, ma a casa non avevamo mai usato il suo nome. Faceva troppo male.

“Mamma, stai bene?”, mi tirò la manica.

“Ha detto altro? Che aspetto aveva?”, gli chiesi, anche se conoscevo già la risposta.

“Lo stesso nonno del parco giochi. Cappotto blu, bastone. Sembrava… triste.” Noah aggrottò la fronte. “Ho fatto qualcosa di sbagliato?”

“No, tesoro”, sussurrai, stringendolo in un rapido abbraccio. “Non hai fatto niente di sbagliato.”

Quella notte dormii a malapena. Continuavo a vedere il volto del vecchio, il modo fragile in cui teneva il suo taccuino, il nome sul foglio che mi bruciava nella mente. Era una coincidenza? Uno scherzo crudele? O qualcosa di molto peggio?

Il giorno dopo uscii dal lavoro prima e andai al parco giochi da sola. Il vento era gelido, le altalene scricchiolavano vuote. Lui era già lì, sulla sua panchina, con il taccuino sulle ginocchia.

Il cuore mi batteva forte mentre mi avvicinavo a lui. Da vicino sembrava ancora più vecchio, con la pelle sottile come carta e gli occhi pallidi ma molto limpidi.

«Mi scusi», esordii, con la voce più tremante di quanto mi aspettassi.

Lui alzò lo sguardo, sorpreso, poi mi riconobbe. «Lei è la madre di Noah», disse dolcemente, con un accento che non riuscivo a identificare.

«Sì. Ieri, a scuola… gli ha dato un foglio con questo». Gli mostrai il biglietto sgualcito. «Perché? Dove ha trovato questo nome?»

Fissò il foglio per un lungo momento, poi guardò il mio viso. Qualcosa nella sua espressione cambiò, come se avesse visto attraverso gli anni invece che i secondi.

«Mi dispiace se ho spaventato il ragazzo», disse a bassa voce. «Non ne avevo il diritto. Ma io… pensavo che forse lei avrebbe capito».

«Capire cosa?» La mia pazienza si esaurì. «Questo è il nome di mia figlia. È morta quando era ancora una bambina. Pensa che questo sia una specie di gioco?»

Le sue mani ora tremavano violentemente. Le strinse insieme per fermarle.

«Il nome di mia nipote è Anna», sussurrò. «Era. Non lo so più. Non la vedo da quando aveva tre anni».

Il mondo sembrò trattenere il respiro.

«Mio figlio», continuò, deglutendo, «ha lasciato il nostro Paese molti anni fa. Abbiamo litigato quando sua moglie era incinta. Ho detto cose stupide, cose dure. Mi ha detto di stare lontano. Quando la piccola Anna aveva tre anni, si sono trasferiti qui. Mi ha mandato una foto. Una sola. Poi più nulla. Ha cambiato numero di telefono. Ha cambiato indirizzo. Ho passato dieci anni a guardare i bambini nei parchi, sperando… sperando di vedere il suo viso».

Aprì il suo taccuino con dolorosa lentezza. Ogni pagina era piena di un unico nome, ripetuto più e più volte: ANNA. Alcuni scritti dritti, altri storti, altri con l’inchiostro sbavato da quelle che potevano essere solo lacrime.

«Mi siedo qui ogni giorno», disse. «Parlo ai bambini nella mia testa. Immagino che lei sia qui, che stia ridendo. Ieri, quando ho visto tuo figlio, qualcosa… qualcosa nei suoi occhi…». La sua voce si spezzò. «Ho pensato che forse aveva una madre che capisce cosa significa perdere un figlio che ami ancora».

La mia rabbia svanì, lasciando solo un profondo dolore.

«Quindi gli hai dato questo?», chiesi dolcemente.

Lui annuì, vergognandosi. «Volevo chiederti… come fai a convivere con questo dolore? Ma quando ti ho visto, ho perso il coraggio. Sono un vecchio sciocco». Cercò di sorridere. Sembrava che gli facesse male.

Mi sedetti accanto a lui. Per un po’ restammo in silenzio ad ascoltare il parco giochi vuoto. Un uccellino saltellava vicino alle altalene, senza paura.

«La mia Anna è morta sette anni fa», dissi lentamente. «Mi sveglio ancora di notte e cerco di raggiungerla. Evito ancora i reparti neonatali nei negozi. Odio ancora il mese in cui è nata. Ma ho anche Noah. Lui ride, fa domande, mi trascina di nuovo nella vita, che mi piaccia o no».

Una lacrima gli scivolò lungo la guancia.

«Io non ho nessuno», sussurrò. «Mia moglie è morta cinque anni fa. Mio figlio…» Scosse la testa. «A volte vengo qui e penso: se resto seduto immobile, forse il passato mi troverà».

Il secondo colpo di scena arrivò allora, non da lui, ma dalla mia bocca.

«Venga domani alle tre», mi sentii dire. «Quando finisce la scuola. Stia di nuovo vicino al cancello. Ma questa volta non dia solo un foglio a Noah. Gli parli. Gli racconti della sua Anna. Lui la ascolterà. Lui ascolta sempre».

Mi guardò, sorpreso. «Perché lo faresti per me?»

«Perché», risposi, sentendo la gola stringersi, «forse la mia Anna avrebbe avuto un nonno come te. E perché mio figlio deve imparare che gli anziani sulle panchine hanno delle storie da raccontare, non solo rughe».

Strinse le labbra, lottando per mantenere il controllo. «Come ti chiami?», chiese.

«Laura».

«Grazie, Laura», disse, pronunciando il nome con cura, come se avesse paura di spezzarlo.

Il giorno dopo, Noah corse fuori da scuola e quasi si scontrò con il vecchio al cancello. Li osservai da lontano. Parlarono. All’inizio timidamente, poi con crescente vivacità. Il vecchio gli mostrò il quaderno; Noah indicò qualcosa, rise, poi improvvisamente strinse il quaderno al petto come se fosse un tesoro.

Quella sera, Noah irruppe nell’appartamento.

«Mamma!», gridò. «Si chiama Viktor! A sua nipote piacciono i palloncini gialli, proprio come a me! E lui non sa dove sia, quindi gli ho detto che possiamo condividerli. Lui può essere il mio nonno in più e io posso essere il suo nipote in più finché non la trova. Va bene?».

I miei occhi si riempirono di lacrime così in fretta che dovetti distogliere lo sguardo.

«Va bene, mamma?» ripeté ansioso.

Guardai mio figlio, la speranza che portava con tanta leggerezza, e pensai a una bambina di cui avevamo avuto paura di pronunciare il nome per sette anni.

«Sì», dissi, con la voce rotta ma abbastanza ferma. «Sì, Noah. Va più che bene».

Da quel giorno in poi, il vecchio non si sedette più da solo sulla panchina del parco giochi. Si sedeva accanto a Noah, a volte leggendo, a volte guardando, a volte semplicemente scrivendo in silenzio un nome sul suo taccuino. Non più un solo nome. Nell’ultima pagina, con la stessa scrittura tremolante, ne aveva aggiunto un altro.

ANNA.

NOAH.

Sotto, con una grafia più piccola e tremante, un’altra parola:

FAMIGLIA.

 

 

dreamy-smile.com