Il ragazzo che suonava il nostro campanello ogni domenica ci chiedeva se poteva prendere in prestito il nostro cane solo per un giorno. Solo più tardi abbiamo scoperto perché lo riportava sempre con gli occhi gonfi di lacrime

Il ragazzo che suonava il nostro campanello ogni domenica ci chiedeva se poteva prendere in prestito il nostro cane solo per un giorno. Solo più tardi abbiamo scoperto perché lo riportava sempre con gli occhi gonfi di lacrime.

La prima volta che è venuto pioveva. Un ragazzo piccolo e magro con una felpa blu scolorita era in piedi sotto il nostro portico, con le scarpe da ginnastica bagnate e le mani tremanti mentre ci porgeva un biglietto sgualcito.

“Ciao… mi chiamo Daniel. Abito a due isolati da qui. Volevo chiederti… posso portare a spasso il tuo cane per un’ora?”

Lanciai uno sguardo alla nostra golden retriever, Molly. Lei ricambiò lo sguardo del ragazzo con la sua solita gentile curiosità, scodinzolando tranquillamente contro la parete del corridoio.

“Ti hanno mandato i tuoi genitori?” gli chiesi. Mi sembrava strano. Chi va di porta in porta a chiedere in prestito un cane?

Lui deglutì. «Mia madre sa che sono qui.» Non disse nulla riguardo a suo padre.

C’era qualcosa nei suoi occhi – un misto di timidezza e una sorta di speranza disperata – che rendeva impossibile dirgli semplicemente di no. Mio marito, Mark, si avvicinò alla porta, diede un’occhiata al ragazzo e alzò le spalle.

«Se Molly è d’accordo, lo sono anch’io», disse, agganciando il guinzaglio e inginocchiandosi per guardare Daniel negli occhi. «Riportala indietro tra un’ora, ok? Non le piace saltare la cena».

Il ragazzo annuì così rapidamente che il cappuccio gli cadde all’indietro, rivelando una zona di capelli tagliati male e un leggero livido sulla tempia. Si accorse che lo stavamo guardando e si rimise il cappuccio.

Scomparvero lungo la strada, con Molly che trotterellava al suo fianco come se si conoscessero da anni.

Esattamente un’ora dopo, il campanello suonò di nuovo. Molly si precipitò dentro, stringendosi alle mie gambe, ma Daniel rimase sulla soglia, con gli occhi rossi e il naso rosa per il freddo.

«Grazie», sussurrò, poi si allontanò in fretta prima che potessi dire una parola.

Divenne un rituale. Ogni domenica alle due, Daniel si presentava. A volte c’era il sole, a volte i fiocchi di neve si attaccavano al suo cappuccio. A volte aveva uno zaino, a volte solo le mani vuote infilate nelle tasche. Sempre la stessa domanda:

«Posso portare Molly a passeggio per un po’, per favore?».

Molly lo adorava. Correva alla porta non appena sentiva i suoi passi sulla ghiaia, guaendo impaziente. Dopo ogni passeggiata tornava stanca e felice, con il pelo che profumava di erba e vento. Daniel, invece, sembrava sempre come se avesse pianto.

Cercai di fargli domande delicate.

“Tutto bene a casa, Daniel?”

“Sì, signora.” Distoglieva lo sguardo.

«Hai un cane tuo?»

«Ce l’avevo», disse una volta, poi si morse immediatamente il labbro e cambiò argomento, chiedendo se Molly potesse mangiare le carote.

Mark pensò che forse i suoi genitori non potevano permettersi un cane, o che vivessero in un condominio che non ammetteva animali domestici. Era facile accettare tali spiegazioni e non approfondire la questione. Lasciammo perdere.

Finché una domenica non venne.

All’inizio scherzammo sul fatto che Molly sembrasse offesa. Si sedeva vicino alla porta, con la testa inclinata, ogni volta che passava una macchina. La sera era irrequieta, camminava avanti e indietro da una finestra all’altra. Una strana inquietudine mi attanagliò il petto.

Il lunedì sera, mentre portavo fuori i bidoni della spazzatura, vidi un’ambulanza a due isolati di distanza, con le luci blu ormai spente e solo il nastro giallo che sventolava al vento. I vicini stavano in piccoli gruppi, bisbigliando. Il mio cuore ha avuto un sussulto quando ho riconosciuto la casa dall’indirizzo sulla prima nota di Daniel.

Ho lasciato Molly con Mark e mi sono avvicinata, con il cuore in gola.

Una donna anziana in divisa da infermiera era in piedi vicino al cancello, con gli occhi gonfi per la stanchezza. Mi sono presentata, balbettando.

“Sono… sono Anna. Abito qui vicino. Un ragazzo, Daniel, a volte… porta a spasso il nostro cane. Va tutto bene?”

Il suo viso si addolcì con una sorta di dolorosa consapevolezza.

“Siete la famiglia con il golden retriever”, disse piano. “Parlava sempre del vostro cane”.

Mi cedettero le ginocchia. “Che cosa è successo?”

Fece un respiro che sembrava doloroso. “La sua sorellina, Emily… È morta ieri notte”.

Il mondo si inclinò. «Io… non sapevo che avesse una sorella».

L’infermiera annuì indicando la casa. «Era malata da molto tempo. Leucemia. Sono l’infermiera che veniva a visitarla a domicilio. Daniel cercava sempre di essere forte per lei». I suoi occhi luccicarono. «Ogni domenica portava il vostro cane al parco. Diceva che voleva portarle un po’ di “mondo esterno” in qualche modo. Si sedeva sotto la sua finestra con il cane e raccontava a Emily cosa stava facendo Molly, cosa annusava, cosa vedeva. A volte Emily era troppo debole per alzarsi. Diceva che se lei non poteva andare nel mondo, lui le avrebbe portato un piccolo pezzo di esso».

Un’ondata di senso di colpa e tenerezza mi travolse, lasciandomi senza fiato.

«Non ce l’ha mai detto», sussurrai. «Perché non ce l’ha detto?»

L’infermiera fece un piccolo sorriso triste. «Non voleva compassione. Voleva solo il vostro cane. Diceva che Molly faceva sorridere Emily anche nei giorni in cui non riusciva ad aprire bene gli occhi».

Immaginai il mio cane seduto sotto una finestra semiaperta, con la sua testa dorata sulle ginocchia di Daniel, mentre una bambina pallida ascoltava dall’interno. Improvvisamente ogni domenica acquistò senso: le lacrime, l’urgenza, il modo in cui controllava sempre l’ora.

«Dove si trova adesso?», chiesi.

«Con sua madre. Stanno… organizzando il funerale». Esitò. «Si sente in colpa, ovviamente. I bambini lo fanno sempre».

Quella notte non riuscii a dormire. Molly camminava avanti e indietro, inquieta, come se sentisse la mancanza di quella piccola mano determinata sul suo guinzaglio. Verso mezzanotte presi una decisione.

La domenica seguente, invece di aspettare il campanello che non avrebbe suonato, Mark e io andammo con Molly a casa di Daniel. Le tende erano tirate. Un mazzo di fiori appassiti era appoggiato alla recinzione. Il mio cuore batteva forte mentre suonavo il campanello.

Ci volle molto tempo, ma alla fine la porta si aprì di uno spiraglio. Daniel era lì, più magro di prima, con gli occhi arrossati da un pianto che non si era placato dopo un giorno intero. La sua felpa con cappuccio gli stava addosso come se appartenesse a qualcun altro.

Molly guaì piano e gli spinse il naso contro la mano.

Lui si bloccò, poi crollò, cadendo in ginocchio sulla soglia, con le braccia avvolte intorno al collo di lei. Nessuna parola, solo un singhiozzo crudo e silenzioso che gli scuoteva tutto il corpo. Feci un passo indietro, lasciandogli spazio, con le lacrime che mi offuscavano la vista.

«Mi dispiace», disse infine con voce strozzata nel pelo di Molly. «Non ho potuto… ieri non ho potuto portarla fuori. Se n’era andata».

Mi inginocchiai accanto a loro. «Daniel», dissi con tutta la dolcezza possibile, «le hai dato più tempo all’aperto di quanto la maggior parte delle persone veda in una vita intera».

Lui scosse la testa, ma non si ritrasse quando gli posai una mano sulla spalla.

«Ascolta», continuai. «Non devi più venire a suonare il nostro campanello. Molly e io… verremo noi da te. Quando vuoi. Non devi chiedere».

Allora alzò lo sguardo verso di me, con gli occhi pieni di un dolore così grande che quasi non riusciva a contenersi in quel viso piccolo e magro.

«Ma perché?», sussurrò. «Lei… lei non è più qui per ascoltare».

«Per te», risposi semplicemente. «E per lei. Penso che le piacesse sapere che tu eri là fuori con Molly».

Dietro di lui, nel corridoio buio, notai attaccato al muro un disegno infantile di un cane dorato e un ragazzino stilizzato sotto una finestra. Sopra c’era scritto a lettere tremolanti: «Daniel + Molly + Emily sono fuori».

Qualcosa dentro di me si spezzò e allo stesso tempo si placò.

Nelle settimane che seguirono, Molly ed io visitammo quella casa quasi ogni giorno. A volte ci sedevamo semplicemente sui gradini davanti alla porta con Daniel, senza parlare, guardando le nuvole che passavano. A volte lui ci raccontava i suoi ricordi di Emily: quanto amasse i palloncini gialli, come avesse dato un nome a ogni uccellino che si posava sull’albero fuori dalla sua finestra, come ridacchiava quando Molly starnutiva.

A poco a poco, le sue lacrime divennero meno frequenti. Cominciò a portare dei dolcetti per Molly, poi a spazzolarle il pelo, poi a ridere sottovoce quando lei si rotolava sulla schiena per farsi grattare la pancia.

Un pomeriggio, mentre il sole inondava di luce calda la strada, indicò la finestra ormai vuota di Emily.

“Penso”, disse lentamente, “che la riaprirò domenica prossima. Non per lei. Per me. E forse lei mi sentirà ancora. Potrò raccontarle cosa vede Molly”.

Molly si appoggiò alla sua gamba come se avesse capito.

Allora capii che la nostra cagnolina non era stata solo un conforto prestato a una bambina malata. Era diventata un fragile ponte tra il dolore insopportabile di un ragazzo e un mondo che continuava a girare senza di lei.

Ancora oggi, quando vedo Daniel e Molly camminare insieme per strada, con le teste chinate l’una verso l’altra come se condividessero un segreto, penso alla bambina dietro la tenda, che ascolta le loro storie del mondo esterno. E ringrazio silenziosamente un ragazzino bagnato dalla pioggia che una volta bussò alla nostra porta e chiese, con voce tremante, se poteva prendere in prestito il nostro cane solo per un’ora.

 

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