La vecchia signora alla finestra del quarto piano continuava a salutare mio figlio ogni mattina, finché un giorno lui mi chiese: «Papà, perché piange se dice che sta bene?».

Ci trasferimmo in quel grigio condominio nel tardo autunno, quando gli alberi erano quasi spogli e la città sembrava un luogo che aveva dimenticato come sorridere. Mio figlio Leo aveva sei anni, uno zaino quasi più grande di lui e quel tipo di curiosità che rende gli adulti orgogliosi e spaventati allo stesso tempo.
La prima mattina, mentre ci affrettavamo verso la scuola, Leo si fermò improvvisamente nel cortile e indicò in alto.
“Papà, guarda. Sta salutando”.
Alla finestra del quarto piano dell’edificio di fronte, dietro pallide tende di pizzo, c’era una donna anziana. Spalle sottili, un cardigan blu sbiadito, capelli argentati raccolti in una crocchia morbida. Stava davvero salutando con la mano, con piccoli movimenti cauti, come se temesse che la sua mano potesse spezzarsi. Esitai, poi alzai la mano e ricambiai il saluto. Il suo viso si illuminò in un modo che mi sembrò stranamente personale, come se stesse aspettando proprio quel momento.
Da quel giorno in poi, divenne un rituale. Alle 8:05 del mattino, attraversavamo l’asfalto crepato tra i palazzi, e lei era lì, alla finestra. Leo saltava e salutava con entrambe le mani.
“Buongiorno, signora!”, gridava ogni volta, anche se lei sicuramente non poteva sentirlo.
Lei sorrideva, premeva la mano sul vetro e annuiva. A volte sollevava una piccola tazza di porcellana, come per brindare con noi.
Una settimana dopo, mentre la pioggia batteva sui nostri ombrelli, notai qualcosa di nuovo. Sulla finestra appannata c’erano delle faccine sorridenti disegnate dalla condensa. Una grande e una piccola. Leo gridò:
“Papà, siamo noi! Quella grande sei tu, quella piccola sono io!”
Risi, ma mi si strinse il cuore.
Il lunedì seguente eravamo in ritardo. Ero stressato, mezzo vestito, alla ricerca delle chiavi, quando Leo apparve nel corridoio già con la giacca addosso.
“Sbrigati, papà! Lei ci aspetterà.”
Quelle parole mi colpirono più del dovuto. Aspettare. Chi? Noi?
Ci precipitammo al piano di sotto. Il cortile era vuoto, il cielo basso e freddo. Leo scrutò l’edificio.
“Non c’è”, disse, deluso.
Alzai lo sguardo. La finestra era buia, le tende chiuse.
“Forse ha dormito troppo”, mormorai.
Quel pomeriggio, tornando dal lavoro, la vidi di nuovo. Questa volta era appoggiata al davanzale della finestra, senza tende di pizzo tra lei e il mondo. Quando mi vide, esitò, poi aprì la finestra di uno spiraglio nonostante il freddo.
«Mi scusi!» disse in un inglese dall’accento straniero. «Il bambino… sta bene?»
«Sì, certo», risposi, sorpresa. «Oggi è dalla nonna».
Le sue spalle si rilassarono. Da vicino sembrava ancora più piccola. I suoi occhi erano uno strano mix di lucentezza e stanchezza.
«È… molto gentile», disse lentamente. «Mi ricorda il mio Daniel quando era piccolo».
Sorrisi educatamente, non sapendo bene cosa dire.
«Grazie per averlo salutato», riuscii a dire.
«Oh no», scosse la testa. «Lei non capisce. Grazie… per aver salutato me».
Qualcosa nella sua voce mi fece guardare più da vicino. La stanza dietro di lei era buia ma pulita. Sulla parete notai una fila di cornici, tutte inclinate con angoli leggermente strani, come se fossero state toccate spesso e raddrizzate altrettanto spesso.
«Buona serata», dissi, e lei annuì, chiudendo la finestra con grande cura.
Quella sera a cena, Leo mi chiese: «Papà, come si chiama?».
«Non lo so», ammisi.
«Dovresti chiederglielo», disse serio. «Non possiamo continuare a salutare qualcuno senza sapere come si chiama».
La mattina dopo, Leo era pronto dieci minuti prima del solito. Mi trascinò praticamente fuori. La finestra era già aperta, come se lei stesse aspettando.
Leo mise le mani a coppa intorno alla bocca. «Come ti chiami?», gridò.
Lei rise, una risata piccola e sorpresa, e si avvicinò.
«Mi chiamo Maria!», gridò.
«Ciao, Maria! Io sono Leo! Questo è mio padre!».
«Ciao, Leo! Ciao, papà!», rispose lei, pronunciando «papà» con un’attenta dolcezza.
Da quel momento in poi, non fu più “la vecchia alla finestra”. Era Maria. Cominciò a lasciare piccoli segni sul vetro: un sole disegnato nelle mattine luminose, un cuore maldestro il venerdì. Leo iniziò a disegnare piccoli omini stilizzati su carta e a mostrarli mentre passavamo. Lei annuiva e univa le mani come in preghiera, commossa da ogni semplice disegno.
Sarebbe potuto rimanere solo quello – piccoli gesti in una città fredda – ma poi arrivò il giorno in cui Leo mi fece la domanda che cambiò tutto.
Avevamo dormito troppo. Lo stavo sgridando perché si sbrigasse quando lui divenne molto silenzioso, tirandomi la manica.
“Papà”, sussurrò, “Maria sta piangendo”.
Alzai lo sguardo, inizialmente infastidito. Poi la vidi.
Maria era alla finestra come sempre, ma il suo sorriso era scomparso. Il suo viso era grigio. La sua mano tremava contro il vetro. E anche dal cortile potevo vedere le tracce bagnate sulle sue guance.
Alzò la mano per salutarmi, ma era un gesto lento, pesante.
Senza pensarci, gridai: «Maria, stai bene?».
Lei annuì troppo rapidamente, poi scosse la testa, con un piccolo movimento sconfitto. Vidi le sue labbra formare parole che non riuscivo a sentire.
«Papà», disse Leo con voce flebile, «perché piange se dice che sta bene?».
Non avevo una risposta.
Al lavoro non riuscivo a concentrarmi. L’immagine delle sue spalle sottili, il modo in cui premeva la fronte contro la finestra, non mi usciva dalla mente. A pranzo, invece di mangiare, andai nell’ufficio dell’edificio e chiesi al responsabile se sapeva qualcosa di una donna di nome Maria al quarto piano.
Lui aggrottò la fronte, poi la sua espressione si addolcì.
«Ah, sì. La signora Maria. Vive da sola. Suo figlio si è trasferito all’estero anni fa. Credo… che non riceva molte visite”.
“Qualcuno va a trovarla?”, chiesi.
Sospirò. “A volte viene un’infermiera. Lei rifiuta di andare in una casa di riposo. Dice che sta ‘aspettando la famiglia’”.
Tornando a casa, comprai una piccola scatola di biscotti e un bouquet di fiori gialli poco costoso. Mi sembrava infantile, ma dovevo fare qualcosa.
“Papà, andiamo a trovarla?” chiese Leo con gli occhi spalancati.
“Se lei vuole”, risposi.
Salimmo la stretta rampa di scale, dove l’aria odorava di polvere e vernice vecchia. La sua porta era l’ultima del corridoio, un po’ storta, con uno zerbino consumato.
Bussai.
Ci fu una pausa, poi un cautissimo scalpiccio di passi. La porta si aprì di uno spiraglio. Apparve un occhio familiare.
«Sì?»
«Siamo noi», dissi goffamente. «Dal cortile. Leo e… papà».
La catena scivolò indietro. La porta si aprì completamente.
Da vicino sembrava ancora più piccola. Il cardigan le pendeva dalle spalle e le mani le tremavano leggermente mentre si aggrappava allo stipite.
«Abbiamo portato… dei biscotti», disse Leo, improvvisamente timido. «E dei fiori».
Per un secondo rimase immobile. Poi portò le dita alla bocca e i suoi occhi si riempirono immediatamente di lacrime.
«Per me?», sussurrò.
«Per te», risposi.
Il suo appartamento era semplice ma molto ordinato. Centrini di pizzo sul tavolo, una vecchia poltrona vicino alla finestra, una minuscola cucina che profumava vagamente di tè e di qualcosa che assomigliava alla cannella. Sulla parete c’erano decine di fotografie: una giovane donna in riva al mare, un ragazzo con i capelli spettinati, una laurea, un matrimonio. Gli stessi volti che invecchiavano, sorridevano, si allontanavano nella distanza.
«Quello è il mio Daniel», disse, notando il mio sguardo. «Vive… molto lontano». Toccò una foto di un giovane con uno zaino e gli occhi pieni di speranza. «Ha detto che verrà quando potrà».
«Quando l’ha visto l’ultima volta?», le chiesi gentilmente.
Lei fissò la foto per un lungo momento.
«Dieci anni fa», disse piano. «Ma ogni tanto chiama. È… molto impegnato».
Leo si agitò sulla sedia, guardando alternativamente me e lei.
«Ha dei nipoti?», chiese.
Il sorriso di Maria vacillò.
«No», rispose. «Non ancora». Fece una pausa, poi lo guardò con una dolcezza che faceva male a vedere. «Ma ora, forse, ho un piccolo amico».
Leo si raddrizzò con orgoglio. «Posso essere tuo nipote», disse.
Era un’offerta così semplice, infantile. Ma il viso di Maria si accasciò come se lui le avesse appena tolto un peso dalle spalle. Si coprì gli occhi con entrambe le mani e singhiozzò, silenziosamente, come qualcuno che non si permetteva di piangere da anni.
Rimasi lì, inutile, con i biscotti in mano, sentendo qualcosa dentro di me che si contorceva.
Rimanemmo lì per un’ora. Bevemmo tè, troppo dolce, con fette di limone, e Leo le mostrò il suo quaderno di scuola. Lei ascoltava ogni parola come se fosse la storia più importante del mondo.
Quando finalmente ce ne andammo, ci accompagnò alla porta, stringendo i fiori come un tesoro.
«Continuerete a salutarci dal cortile?», chiese, quasi spaventata.
«Ogni giorno», disse Leo con fermezza.
Da quel momento in poi, il rituale alla finestra cambiò. Non era più solo un saluto con la mano. Alcune mattine, vedevo la sua sagoma sollevare una piccola tazza e capivo che stava bevendo il tè con noi. Nei fine settimana andavamo a trovarla. A volte per dieci minuti, a volte per ore. Leo le raccontava della scuola, della sua paura della matematica, del bambino che gli aveva preso la matita. Lei gli raccontava del villaggio della sua infanzia, del suo sogno di diventare una cantante, della prima volta che aveva visto il mare.
Arrivò l’inverno. Una mattina nevosa, uscimmo come al solito. Leo alzò lo sguardo e cominciò a salutare con la mano.
“Buongiorno, Maria!”, gridò.
Ma la finestra era vuota.
Niente tende, niente sagoma, solo il pallido riflesso del cielo grigio.
Mi si strinse lo stomaco.
“Forse è in cucina”, dissi in fretta. “O sta dormendo”.
Leo non rispose. La sua mano cadde lentamente lungo il fianco.
Per tutto il giorno controllai mentalmente la finestra. Quando tornai a casa la sera e non la vidi ancora, dissi a Leo che dovevo “parlare con qualcuno nel palazzo”. Lui annuì, fingendo di non essere preoccupato.
Il corridoio al quarto piano era freddo. La sua porta era chiusa, lo zerbino ben sistemato al suo posto. Esitai, poi bussai.
Nessuna risposta.
Stavo per andarmene quando sentii una porta aprirsi dietro di me.
«È andata in ospedale stamattina», disse un vicino a bassa voce. «È arrivata l’ambulanza. Credo sia stato un problema cardiaco».
Mi si strinse la gola.
«In quale ospedale?», chiesi.
Un’ora dopo, mi trovavo in un corridoio bianco che odorava di disinfettante. Trovai la sua stanza. Era distesa lì, più piccola che mai contro i grandi cuscini, con un sottile tubo di ossigeno sotto il naso. Aveva gli occhi chiusi.
Mi avvicinai.
«Maria?», sussurrai.
Aprì gli occhi. Quando mi vide, le sue labbra si incurvarono in un sorriso debole.
«Papà», disse con sforzo. «Dov’è Leo?»
«A casa», risposi. «È tardi. Non volevo spaventarlo».
Lei annuì lentamente.
«Sei venuto», mormorò. «Pensavo… forse ti avevo solo sognato. Il ragazzo nel cortile. Il saluto con la mano».
«Non hai sognato», le dissi. «Siamo reali».
Mi prese la mano, con le dita leggere come carta.
«Avevo… tanta paura di morire da sola», sussurrò, con gli occhi pieni di lacrime. «Ma ora… forse non sarà così. Perché qualcuno ricorderà che sono stata qui».
Deglutii a fatica.
«Noi ti ricorderemo», le dissi. «Te lo prometto».
Chiuse gli occhi, continuando a sorridere.
Maria non tornò alla finestra del quarto piano.
Qualche giorno dopo, un’infermiera chiamò per dire che era morta serenamente nel sonno. Nessun familiare era andato a trovarla. Ci sarebbe stato un funerale semplice e breve organizzato dal comune.
Mi sedetti sul bordo del letto, con il telefono in mano, e fissai il muro, cercando di respirare.
«Come lo dico a Leo?», pensai.
Alla fine, lui mi ha facilitato il compito.
Quando sono entrata in soggiorno, lui era in piedi vicino alla finestra e guardava il cortile.
«Non tornerà più, vero?», mi ha chiesto senza voltarsi.
Mi sono bloccata.
«Perché lo pensi?», gli ho chiesto dolcemente.
Ha indicato l’edificio di fronte.
«La sua finestra è aperta», disse. «Ma non c’è la tazza. E non ci sono le tende. Sembra… vuota».
Mi avvicinai e gli posai una mano sulla spalla.
«Leo», dissi con voce tremante, «Maria si è ammalata gravemente. È andata in ospedale. E… è morta».
Non pianse subito. Rimase lì, immobile.
«È morta da sola?», chiese dopo un attimo.
Pensai alla sua mano nella mia, alle sue parole tranquille.
«No», risposi. «Sapeva che eravamo con lei. Non era sola».
Le spalle di Leo tremarono.
«Dobbiamo comunque salutarla», disse ostinatamente. «Nel caso potesse ancora vederci».
E così facemmo.
La mattina dopo, alle 8:05, un uomo e un ragazzino stavano in piedi in un cortile freddo e salutavano con la mano una finestra vuota al quarto piano.
Lo facemmo anche il giorno dopo. E quello successivo. Dopo una settimana, Leo disegnò una grande faccina sorridente su un foglio di carta, lo attaccò alla nostra finestra e disse: «Ora può vederci da entrambi i lati».
Passarono i mesi. La città ricominciò lentamente a sorridere. Nuove tende apparvero alla vecchia finestra di Maria. Una giovane coppia si trasferì nell’appartamento, poi il pianto di un bambino cominciò a echeggiare nella tromba delle scale.

Il sorriso di Maria vacillò.
«No», rispose. «Non ancora». Fece una pausa, poi lo guardò con una dolcezza che faceva male a vedere. «Ma ora, forse, ho un piccolo amico».
Leo si raddrizzò con orgoglio. «Posso essere tuo nipote», disse.
Era un’offerta così semplice, infantile. Ma il viso di Maria si accasciò come se lui le avesse appena tolto un peso dalle spalle. Si coprì gli occhi con entrambe le mani e singhiozzò, silenziosamente, come qualcuno che non si permetteva di piangere da anni.
Rimasi lì, inutile, con i biscotti in mano, sentendo qualcosa dentro di me che si contorceva.
Rimanemmo lì per un’ora. Bevemmo tè, troppo dolce, con fette di limone, e Leo le mostrò il suo quaderno di scuola. Lei ascoltava ogni parola come se fosse la storia più importante del mondo.
Quando finalmente ce ne andammo, ci accompagnò alla porta, stringendo i fiori come un tesoro.
«Continuerete a salutarci dal cortile?», chiese, quasi spaventata.
«Ogni giorno», disse Leo con fermezza.
Da quel momento in poi, il rituale alla finestra cambiò. Non era più solo un saluto con la mano. Alcune mattine, vedevo la sua sagoma sollevare una piccola tazza e capivo che stava bevendo il tè con noi. Nei fine settimana andavamo a trovarla. A volte per dieci minuti, a volte per ore. Leo le raccontava della scuola, della sua paura della matematica, del bambino che gli aveva preso la matita. Lei gli raccontava del villaggio della sua infanzia, del suo sogno di diventare una cantante, della prima volta che aveva visto il mare.
Arrivò l’inverno. Una mattina nevosa, uscimmo come al solito. Leo alzò lo sguardo e cominciò a salutare con la mano.
“Buongiorno, Maria!”, gridò.
Ma la finestra era vuota.
Niente tende, niente sagoma, solo il pallido riflesso del cielo grigio.
Mi si strinse lo stomaco.
“Forse è in cucina”, dissi in fretta. “O sta dormendo”.
Leo non rispose. La sua mano cadde lentamente lungo il fianco.
Per tutto il giorno controllai mentalmente la finestra. Quando tornai a casa la sera e non la vidi ancora, dissi a Leo che dovevo “parlare con qualcuno nel palazzo”. Lui annuì, fingendo di non essere preoccupato.
Il corridoio al quarto piano era freddo. La sua porta era chiusa, lo zerbino ben sistemato al suo posto. Esitai, poi bussai.
Nessuna risposta.
Stavo per andarmene quando sentii una porta aprirsi dietro di me.
«È andata in ospedale stamattina», disse un vicino a bassa voce. «È arrivata l’ambulanza. Credo sia stato un problema cardiaco».
Mi si strinse la gola.
«In quale ospedale?», chiesi.
Un’ora dopo, mi trovavo in un corridoio bianco che odorava di disinfettante. Trovai la sua stanza. Era distesa lì, più piccola che mai contro i grandi cuscini, con un sottile tubo di ossigeno sotto il naso. Aveva gli occhi chiusi.
Mi avvicinai.
«Maria?», sussurrai.
Aprì gli occhi. Quando mi vide, le sue labbra si incurvarono in un sorriso debole.
«Papà», disse con sforzo. «Dov’è Leo?»
«A casa», risposi. «È tardi. Non volevo spaventarlo».
Lei annuì lentamente.
«Sei venuto», mormorò. «Pensavo… forse ti avevo solo sognato. Il ragazzo nel cortile. Il saluto con la mano».
«Non hai sognato», le dissi. «Siamo reali».
Mi prese la mano, con le dita leggere come carta.
«Avevo… tanta paura di morire da sola», sussurrò, con gli occhi pieni di lacrime. «Ma ora… forse non sarà così. Perché qualcuno ricorderà che sono stata qui».
Deglutii a fatica.
«Noi ti ricorderemo», le dissi. «Te lo prometto».
Chiuse gli occhi, continuando a sorridere.
Maria non tornò alla finestra del quarto piano.
Qualche giorno dopo, un’infermiera chiamò per dire che era morta serenamente nel sonno. Nessun familiare era andato a trovarla. Ci sarebbe stato un funerale semplice e breve organizzato dal comune.
Mi sedetti sul bordo del letto, con il telefono in mano, e fissai il muro, cercando di respirare.
«Come lo dico a Leo?», pensai.
Alla fine, lui mi ha facilitato il compito.
Quando sono entrata in soggiorno, lui era in piedi vicino alla finestra e guardava il cortile.
«Non tornerà più, vero?», mi ha chiesto senza voltarsi.
Mi sono bloccata.
«Perché lo pensi?», gli ho chiesto dolcemente.
Ha indicato l’edificio di fronte.
«La sua finestra è aperta», disse. «Ma non c’è la tazza. E non ci sono le tende. Sembra… vuota».
Mi avvicinai e gli posai una mano sulla spalla.
«Leo», dissi con voce tremante, «Maria si è ammalata gravemente. È andata in ospedale. E… è morta».
Non pianse subito. Rimase lì, immobile.
«È morta da sola?», chiese dopo un attimo.
Pensai alla sua mano nella mia, alle sue parole tranquille.
«No», risposi. «Sapeva che eravamo con lei. Non era sola».
Le spalle di Leo tremarono.
«Dobbiamo comunque salutarla», disse ostinatamente. «Nel caso potesse ancora vederci».
E così facemmo.
La mattina dopo, alle 8:05, un uomo e un ragazzino stavano in piedi in un cortile freddo e salutavano con la mano una finestra vuota al quarto piano.
Lo facemmo anche il giorno dopo. E quello successivo. Dopo una settimana, Leo disegnò una grande faccina sorridente su un foglio di carta, lo attaccò alla nostra finestra e disse: «Ora può vederci da entrambi i lati».
Passarono i mesi. La città ricominciò lentamente a sorridere. Nuove tende apparvero alla vecchia finestra di Maria. Una giovane coppia si trasferì nell’appartamento, poi il pianto di un bambino cominciò a echeggiare nella tromba delle scale.
Una sera, mentre sparecchiavamo la tavola, Leo disse sottovoce:
«Papà, quando sarò grande e tu sarai vecchio, verrò a trovarti. Non ti dimenticherò come ha fatto suo figlio. Te lo prometto».
Sentii un nodo alla gola.
«Va bene», riuscii a dire. «Ti aspetterò alla finestra».
Lui annuì, serio.
«Allora non avrai paura», disse.
Guardai fuori, al quarto piano, verso quella finestra ormai familiare che apparteneva a qualcun altro.
Per gran parte della mia vita era stata solo un vetro.
Ora, ogni volta che passo davanti a un edificio e vedo una persona anziana che guarda fuori, rallento. A volte saluto con la mano. A volte mi rispondono, sorpresi, quasi timidi.
E non riesco a smettere di pensare: quante Maria ci sono là fuori, dietro le loro finestre, in attesa che qualcuno si accorga della loro esistenza?
È bastato il saluto di una bambina per far sentire una di loro meno sola.
E a volte, quando la luce del mattino colpisce il vetro nel modo giusto, potrei quasi giurare di vedere una mano sottile, in un cardigan blu sbiadito, che continua a ricambiare il saluto.
