Il ragazzo che ogni domenica continuava a riportare alla mia porta lo stesso portafoglio smarrito mi ha spinto un giorno a seguirlo, e quello che ho visto nel suo seminterrato mi perseguita ancora oggi.

La prima domenica pensavo fosse solo gentilezza.
“Signore, le è caduto questo”, disse il ragazzo, tendendomi il mio portafoglio di pelle marrone con entrambe le mani come se fosse qualcosa di sacro. Era magro, forse aveva dieci anni, i capelli scuri spuntavano in tutte le direzioni. Più tardi mi disse che si chiamava Daniel.
Controllai rapidamente: tutte le mie carte, la mia carta d’identità, persino la piccola foto di mia figlia Emma erano al loro posto. C’erano solo un paio di dollari in contanti, che comunque non usavo mai.
” Grazie, Daniel“, dissi. ”Dove l’hai trovato?”
“Sul marciapiede, vicino alla fermata dell’autobus”, rispose, con gli occhi fissi sul portafoglio, non su di me.
Annuii, lo ringraziai di nuovo e pensai che fosse tutto.
Il lunedì mattina mi resi conto di una cosa strana: il mio portafoglio era esattamente dove lo tenevo sempre, nel cassetto superiore della mia scrivania. Quello che non porto mai fuori nei fine settimana.
L’ho aperto. C’era tutto. Poi ho aperto il portafoglio che mi aveva portato il ragazzo. Identico. Stessi graffi, stesso angolo piegato. Stessa foto di Emma, che sorrideva con i denti storti all’età di sei anni.
Due portafogli. Entrambi miei. Entrambi veri.
Mi sono convinto di averne ordinato uno duplicato anni fa e di averlo dimenticato. La vita era già abbastanza pesante: turni lunghi, documenti per il divorzio sul tavolo, Emma che viveva con sua madre in un’altra città. Non avevo energie per i misteri.
La seconda domenica, tornò di nuovo.
Questa volta, osservai ciò che accadeva. Avevo il mio vero portafoglio in tasca. Me ne assicurai, toccandolo ogni pochi minuti come un’abitudine nervosa. Non uscii dall’appartamento per tutta la mattina.
Alle 15:00 suonò il campanello.
Era lui: stessa giacca, stesso timido sorrisetto, il mio portafoglio tra le mani.
“Signore, le è caduto di nuovo”, disse dolcemente.
Il freddo mi si diffuse dal petto alle dita. Tirai fuori il portafoglio dalla tasca.
“Ho già il mio”, dissi. “Vedi?”
Per la prima volta, alzò lo sguardo. I suoi occhi erano di un grigio spento ed esausto, come se non dormisse da settimane.
“Lo so”, sussurrò. “Lo fai sempre”.
Mi mise il secondo portafoglio in mano e si voltò per andarsene.
«Aspetta!» lo chiamai. «Dove li trovi?»
Esitò. «Sempre nello stesso posto».
«Vicino alla fermata dell’autobus?»
Annui. «Lei… lo perde sempre lì».
«Sono mesi che non mi avvicino a una fermata dell’autobus», dissi, con più tono severo di quanto volessi.
Lui sussultò, poi mormorò: «Mi dispiace» e si affrettò a scendere le scale.
La terza domenica lo stavo aspettando.
Le ore passavano lente. Camminavo avanti e indietro, controllavo la finestra, controllavo il portafoglio, controllavo l’ora. 14:50. 14:55. 15:00.
15:07. Il campanello.
Ho aperto la porta prima che potesse suonare una seconda volta.
Sembrava più magro, se possibile. Un livido sbiadito sotto un occhio, uno strappo nella manica. Ma le sue mani erano ferme mentre mi porgeva il portafoglio.
Questa volta non l’ho preso.
«Daniel», ho detto, sforzandomi di mantenere la voce calma, «ho bisogno che tu mi dica la verità. Perché continui a portarmi questo?»
Lui fissò il pavimento. «Perché continui a perderlo».
«Non è vero».
Lui deglutì. «Sì, invece. Ogni domenica. Lo lasci cadere e… e non torni più».
Il modo in cui si era strozzato sulle ultime parole mi fece stringere la gola.
«Dove sono i tuoi genitori?», gli chiesi gentilmente.
Lui alzò le spalle. «Sono occupati».
«Posso parlare con loro?»
Un lampo di panico gli attraversò gli occhi. «No. Ti prego, no.»
Il livido sotto il suo occhio sembrava più scuro ora. Feci un passo indietro dalla porta.
«Entra un attimo», gli dissi. «Sembri affamato.»
Scosse rapidamente la testa. «Non mi è permesso.»
«Allora lascia che ti accompagni a casa», gli dissi. «Solo per assicurarmi che arrivi sano e salvo».
Esitò così a lungo che pensai che sarebbe scappato. Poi fece un piccolo cenno con la testa.
Camminammo in silenzio. Era l’inizio della primavera, l’aria era ancora pungente. Lui stringeva al petto la sua giacca sottile. Dopo due isolati, riconobbi la strada che portava alla vecchia stazione degli autobus.
«È qui che lo trovi?», gli chiesi.
Indicò una zona crepata del marciapiede vicino a un lampione inclinato.
«Proprio lì», disse. «Ogni volta».
Mi fermai in quel punto. Niente. Solo sporcizia, mozziconi di sigarette, un tappo di bottiglia. Mi guardai intorno. Passò una donna con la spesa, un adolescente in bicicletta. Tutto normale.
«Daniel», dissi con cautela, «ne hai parlato con qualcun altro?»
Lui scosse la testa.
«Dove abiti?»
«Laggiù», disse indicando una strada secondaria che di solito evitavo. Stretta, umida, fiancheggiata da edifici scrostati.
Il suo era il peggiore di tutti. Vernice gialla scrostata, finestre semidistrutte, un leggero odore di muffa che si sentiva persino dalla strada. Si fermò sulla soglia, improvvisamente piccolo.
«Non sei obbligato a venire», mormorò.
«Ma io voglio venire», risposi.
Scesero una breve rampa di scale fino al seminterrato. Il corridoio era basso e buio, ma qualcuno aveva appeso al soffitto una striscia di LED economici e luminosi. Emettevano un leggero ronzio. C’erano porte su entrambi i lati, con numeri dipinti a mano. Si fermò alla 0B.
«Ecco», disse.
Non bussò. Aprì semplicemente la porta.
La prima cosa che vidi fu il muro.
Mi cedettero le ginocchia.
L’intera parete di fronte alla porta era ricoperta di foto. Decine di copie stampate delle stesse tre immagini: io in età diverse, io con Emma al parco, io che scendevo da un autobus, io in piedi vicino a quel pezzo di marciapiede crepato vicino al lampione.
In ogni singola foto, avevo in mano o stavo facendo cadere il mio portafoglio.
E nell’angolo di quasi tutte le foto, sfocato ma riconoscibile, c’era Daniel.
La mia voce era roca. «Che cos’è questo?»
Lui fissò il pavimento, poi il muro, come se lo vedesse attraverso i miei occhi per la prima volta.
«Dovevo ricordarmi», sussurrò. «Hanno detto che te ne eri andato, ma tu continui a tornare. Solo la domenica. Solo lì».
Sul tavolino sotto il muro c’erano una macchina fotografica economica e malconcia e una pila di quaderni.
Mi tremavano le mani mentre aprivo quello in cima. All’interno, con la scrittura stretta di un bambino, c’era la stessa frase ripetuta più volte:
“Papà fa cadere il portafoglio. Io lo porto a casa. Lui non si ricorda ancora di me.”
La parola «papà» mi ballava davanti agli occhi.
«Non sono tuo padre», dissi con voce roca. «Io… ho una figlia. Si chiama Emma».
Sussultò come se lo avessi schiaffeggiato.
«È quello che dici sempre», sussurrò. «Ogni volta».
Dietro di me, una voce dalla porta:
«Daniel? Che stai facendo?»

C’era una donna, di mezza età, con un grembiule macchiato di qualcosa di scuro. Il suo viso era stanco, ma i suoi occhi erano gentili in un modo che mi faceva male al petto.
«Signora», balbettai, «io… sono il suo vicino. Mi ha restituito il portafoglio e io…»
Si portò una mano alla bocca quando vide il muro.
«Oh, tesoro», mormorò a Daniel. «L’hai portato di nuovo».
«Di nuovo?», ripetei.
Mi guardò, mi guardò davvero, e vidi un lampo di riconoscimento.
«Ci siamo già incontrati», disse dolcemente. «Diverse volte. Non te lo ricordi, vero?».
«Me lo ricorderei», sbottai, poi mi fermai. Perché non ne ero più sicuro. Non riuscivo a ricordare la maggior parte delle domeniche. Solo un ricordo confuso di stanchezza, scartoffie, a volte un drink per calmare il rumore nella mia testa.
«Suo padre è morto a quella fermata dell’autobus tre anni fa», disse a bassa voce. «Infarto. Ha perso il portafoglio quando è caduto. Stavano venendo a trovarti».
«A trovare… me?», chiesi con voce rotta.
Lei indicò una delle foto. Ero io da giovane, sorridente, mentre tenevo la manina di Emma. Scattata da lontano.
«Suo padre era tuo fratello, Michael», disse. «Mostrava sempre a Daniel la tua foto. Continuava a dire: “Andremo a trovare lo zio Aaron. Lui ci aiuterà”».
La stanza mi girò intorno. Mi aggrappai allo schienale di una sedia.
«Non ho un fratello», sussurrai.
«Ce l’avevi», disse gentilmente. «Hai smesso di rispondere alle sue chiamate anni fa. Dopo il tuo divorzio. Dopo che sei… scomparso nella tua tristezza».
Sulla parete, in una foto, il volto di Michael era chiaro per una volta. Il mio volto, ma più morbido, più gentile. In piedi accanto a un Daniel molto più giovane alla fermata dell’autobus.
Qualcosa dentro di me si spezzò.
«Io… non me lo ricordo», dissi, con le lacrime che mi bruciavano gli occhi.
La voce della donna tremò. «Forse non volevi ricordarlo. Ma questo ragazzo ha aspettato. Ogni domenica va in quel posto. Ogni domenica dice che ti cadrà il portafoglio e che questo significherà che sei tornata per lui».
Guardai Daniel. Le sue piccole spalle tremavano.
«Pensavo che se avessi continuato a portarlo», sussurrò, «un giorno te ne saresti ricordato. Dici sempre che non hai un fratello, ma quando sei arrabbiato gli assomigli tantissimo».
Poi rise, un suono spezzato, flebile.
«E dici sempre che hai un solo figlio», aggiunse. «Quindi ho pensato… che forse se avessi continuato a mettere la tua foto sul muro, sarei potuto tornare a essere reale».
Le gambe mi cedettero e mi sedetti pesantemente sul divano logoro.
«Mi dispiace», dissi, con le parole che mi uscivano strappate dalla gola. «Mi dispiace tantissimo».
Lui non si avvicinò. Rimase lì, stringendo il portafoglio ormai inutile, come se temesse che potessi svanire se avesse battuto le palpebre.
Fuori, attraverso la piccola finestra del seminterrato, potevo vedere la pallida fetta di cielo domenicale.
«Non ricordo tutto», dissi lentamente, ogni parola dolorosa. «Ma ricordo di essere stata così piena di dolore da allontanare tutti. Forse ho allontanato anche tuo padre. È colpa mia. Non tua».
Il silenzio era pesante tra noi.
Poi, con cautela, mi alzai e mi avvicinai alla parete. Presi una foto: io alla fermata dell’autobus, la sua figura sfocata in un angolo.
«Non posso cambiare ciò che ho dimenticato», dissi. «Ma posso decidere cosa ricordare di oggi».
Mi voltai verso di lui, con la foto in mano.
«Mi permetterai di iniziare a essere tuo zio adesso, Daniel?».
Le sue labbra si aprirono. La speranza e la paura lottavano nei suoi occhi.
«Non spariresti la prossima domenica?», sussurrò.
Deglutii a fatica.
«Sarò alla fermata dell’autobus», dissi. «Ma questa volta ti aspetterò. E continuerò a tornare. Anche se dovessi scriverlo mille volte sul mio muro».
Qualcosa dentro di lui cedette. Non mi corse incontro, non mi abbracciò come nei film. Si limitò ad annuire, un cenno secco e disperato, come se qualsiasi movimento più ampio potesse distruggere quel fragile momento.
«Porterò i quaderni», disse piano. «Così non te ne dimenticherai».
Sorrisi attraverso le lacrime.
«Bene», dissi. «Allora ricorderemo insieme».
Quella sera, tornata a casa, presi tutti i portafogli in più dal cassetto e li allineai sul tavolo. Scrissi una frase su un post-it e lo attaccai sopra di essi, sulla parete:
«Ogni domenica, un ragazzo mi riporta indietro la mia vita».
E per la prima volta dopo anni, ho impostato la sveglia non per il lavoro, non per le bollette, non per nient’altro che per un bambino magro che aspetta vicino a un marciapiede crepato, stringendo la speranza sotto forma di un portafoglio marrone consumato.
