I vicini pensavano che il vecchio signor Harris stesse di nuovo sgridando il cane randagio, ma quella mattina l’abbaiare cessò e solo il bollitore continuava a fischiare nella sua cucina silenziosa

I vicini pensavano che il vecchio signor Harris stesse di nuovo sgridando il cane randagio, ma quella mattina l’abbaiare cessò e solo il bollitore continuava a fischiare nella sua cucina silenziosa.

Quando Emma parcheggiò la sua auto davanti alla piccola casa di mattoni alla fine della strada, il vapore sulla finestra della cucina si era già trasformato in una fredda nebbia. Spense il motore e rimase seduta lì, con le dita strette sul volante, fissando la recinzione storta e la porta blu sbiadita.

Questo era il posto in cui aveva promesso di non tornare mai più.

Il suo telefono mostrava ancora la chiamata persa da un numero sconosciuto. Una voce femminile nella segreteria telefonica: “È Emma Harris? Sono la vicina di suo padre. Penso che dovrebbe venire. È successo qualcosa”.

Suo padre. Non pronunciava quelle parole ad alta voce da cinque anni.

Emma si costrinse a uscire dall’auto. L’aria invernale le mordeva le guance mentre percorreva il vialetto, con gli stivali che scricchiolavano sul ghiaccio sottile. Aveva immaginato quel momento così tante volte, sempre con rabbia, sempre con parole taglienti pronte sulla lingua. Ma quando raggiunse la soglia, tutto ciò che provò fu un dolore vuoto e spaventato.

La porta era aperta. Cedette con un cigolio stanco.

«C’è qualcuno?», chiamò. «Signor Harris?» La vecchia abitudine le sfuggì prima che potesse fermarla. Aveva iniziato a chiamarlo per cognome dopo quella notte in cui lui, con gli occhi rossi e tremante, le aveva urlato che lei era proprio come sua madre.

Il silenzio le rispose, pesante e stantio.

Entrò. La prima cosa che la colpì fu l’odore: tè bollito lasciato troppo a lungo, polvere e quel sottile sentore metallico che aveva sentito solo negli ospedali. Il bollitore fischiava sul fornello. Emma si affrettò a spegnerlo, sfiorando con la mano una tazza scheggiata che aspettava accanto ad esso, con il filo di una bustina di tè che pendeva mollemente dal bordo.

«Papà?» La sua voce si spezzò sulla seconda sillaba.

Un lamento sommesso proveniva dal soggiorno.

Emma seguì il suono. Sul tappeto logoro, accanto a una vecchia poltrona, giaceva un cane marrone e bianco, con le costole appena visibili sotto il pelo arruffato. Alzò debolmente la testa quando la vide, scodinzolando una volta, poi due, come se ogni scodinzolata gli costasse uno sforzo.

Ai suoi piedi, sul pavimento, giaceva suo padre.

Era disteso su un fianco, con un braccio teso verso il cane, le dita ricurve come se avesse cercato di toccarlo. Aveva gli occhi semiaperti e fissava la gamba del mobile. C’era una macchia di tè sul suo maglione e il suo vecchio orologio, quello che non aveva mai tolto quando lei era bambina, lampeggiava tranquillamente i suoi numeri digitali, come se il tempo potesse continuare senza di lui.

Emma si bloccò. Per un attimo, tornò ad avere dieci anni, guardandolo mentre indossava quello stesso orologio al mattino, facendole l’occhiolino e dicendole: “Questo aggeggio fa funzionare la casa, Em. Se si ferma, siamo finiti”.

Cadde in ginocchio. “Papà?” Lo sapeva. Eppure gli toccò il collo, cercando disperatamente calore, un polso, qualsiasi segno che smentisse ciò che i suoi occhi le dicevano. Non c’era nulla.

Il cane guaì e leccò la manica di suo padre.

Qualcosa dentro il suo petto si spezzò, lentamente e dolorosamente, come il ghiaccio che si rompe su un fiume.

Arrivarono i paramedici, poi la polizia. Parlavano con voci morbide e esperte, chiedevano date e numeri di telefono, spiegavano cosa fosse un infarto e come “probabilmente fosse stato rapido”. Emma annuì meccanicamente. Si sentì dire: “Non ci parlavamo da anni”, e quelle parole le lasciarono l’amaro in bocca.

Fu solo quando chiusero la cerniera della borsa nera che si rese conto che il cane non si era allontanato dalla poltrona. Guardava, con gli occhi spalancati e lucidi, ogni muscolo teso, ma con le zampe inchiodate al tappeto.

“Il cane è suo?”, chiese uno dei paramedici.

«Io… non lo so», ammise Emma. «Lui odiava i cani».

«Ha ululato per ore», disse sottovoce il vicino che aveva lasciato il messaggio in segreteria dalla porta. «Pensavamo che stesse solo urlando di nuovo. Sapete com’era fatto. Ma il cane… non smetteva. Ecco perché ho chiamato».

Quando finalmente se ne andarono tutti, il crepuscolo premeva già contro le finestre. Emma rimase in piedi al centro del piccolo soggiorno che profumava ancora di lui: tabacco economico, tè forte, carta vecchia. Il cane la guardava, con il corpo abbassato e le orecchie abbassate.

«Ehi, amico», disse dolcemente. «Come ti chiami?»

Lui sbatté solo le palpebre, poi guardò la porta come se si aspettasse che il suo padrone tornasse.

Emma si sedette con cautela sulla poltrona. Le molle scricchiolarono sotto il suo peso. Sul tavolino c’erano un paio di occhiali da lettura, un cruciverba incompiuto e una cornice con una foto capovolta.

La raccolse.

Era una foto di lei a dodici anni, in piedi davanti a un progetto scientifico scolastico, con i capelli raccolti in due trecce irregolari e un ampio sorriso. Accanto a lei, più giovane e con i capelli lisci, suo padre sorrideva alla macchina fotografica, con la mano che aleggiava goffamente dietro la sua spalla, come se avesse paura di toccarla.

Le si mozzò il respiro. Girò la cornice. Sul retro, con una calligrafia tremolante, qualcuno aveva scritto: «La grande vittoria di Emma. 2005. La mia ragazza brillante». Le ultime due parole erano sottolineate due volte.

Non sapeva che lui l’avesse conservata.

Il cane si avvicinò e annusò la foto, poi appoggiò la testa sulle sue ginocchia con un leggero sospiro, come se anche lui stesse aspettando di essere notato.

Emma trattenne un singhiozzo. «Da quanto tempo siete qui da soli?» La sua voce era poco più che un sussurro.

In cucina trovò due ciotole sul pavimento: una con dell’acqua, quasi vuota, l’altra con del cibo per cani economico. Un guinzaglio nuovo era appeso a un gancio vicino alla porta sul retro, ancora rigido come quando era stato comprato. Accanto ad esso c’era il pesante cappotto invernale di suo padre, con le tasche gonfie.

In una tasca trovò una ricevuta sgualcita e un piccolo foglio di carta piegato. La ricevuta era del negozio di animali e risaliva a sole tre settimane prima. Il foglietto era un biglietto, scritto con la stessa calligrafia tremolante:

“Emma, se mai dovessi tornare, non aver paura di lui. Si chiama Lucky. L’ho trovato vicino al fiume. È un buon ascoltatore. Sto cercando di esserlo anch’io. Papà”.

Le ginocchia le cedettero. Si appoggiò al bancone, stringendo il biglietto al petto come se potesse spingerlo direttamente nel suo cuore.

Lui l’aveva aspettata. Con un cane randagio e una speranza che lei aveva giurato di non dargli mai più.

In camera da letto trovò altre prove silenziose di un uomo che non si era mai permessa di immaginare. Un cassetto pieno di biglietti d’auguri mai spediti, ciascuno con il suo nome scritto sulla busta con caratteri accurati. Ritagli di giornale sulle borse di studio, anche se lei aveva abbandonato gli studi. Una piccola scatola con i suoi vecchi disegni scolastici, ingialliti e piegati.

La rabbia che aveva coltivato per anni le sembrò improvvisamente infantile e insignificante di fronte a questi goffi e disperati tentativi di fare ammenda.

Quella notte, Emma non riuscì a lasciare la casa vuota. Si preparò una tazza di tè nella tazza scheggiata, si sedette sulla poltrona e lasciò che Lucky si accucciasse ai suoi piedi. Ogni volta che lei si muoveva, lui alzava la testa e guardava verso il corridoio, poi di nuovo verso di lei, confuso, come un bambino che si sveglia da un brutto sogno.

«Lo odiavo», confessò nella stanza buia. «Lo sapevi? Ho detto a tutti che non mi importava se fosse vivo o morto».

Lucky sospirò e premette il suo fianco caldo contro la sua caviglia.

Le lacrime finalmente arrivarono, lente e inarrestabili. «E ora è troppo tardi», disse con voce strozzata. «Sono tornata solo per vedere una borsa».

Da qualche parte tra la sua terza tazza di tè e il silenzio che diventava meno opprimente, prese la sua decisione.

Al mattino chiamò l’impresa di pompe funebri. Poi chiamò il suo lavoro, con voce più calma di quanto si sentisse, e disse che aveva bisogno di qualche giorno. Quando riattaccò, Lucky la guardò, con le orecchie dritte.

«Tu vieni con me», gli disse.

Lui scodinzolò incerto, come se avesse paura di sperare.

Nel corridoio, prese l’orologio di suo padre dal piccolo piattino vicino alla porta. Continuava a ticchettare, contando ostinatamente i secondi che lui non avrebbe mai visto. Se lo allacciò al polso. Il cinturino era troppo grande e le scivolò sulla mano.

«Va bene», sussurrò, asciugandosi il viso con il dorso della manica. «Hai vinto, vecchio mio. Mi prenderò cura del tuo cane. Metterò in ordine le tue cose. Leggerò i tuoi stupidi cruciverba. È tutto quello che posso darti ora».

Chiuse la porta a chiave dietro di sé e guardò indietro attraverso il vetro smerigliato, aspettandosi che la casa protestasse, che si rifiutasse di lasciarla andare. Ma la casa rimase lì, piccola e stanca, con la vernice scrostata e la recinzione storta, a custodire tutte le parole che non si erano mai detti.

Durante il viaggio di ritorno, Lucky appoggiò la testa sulle sue ginocchia, con il respiro caldo e regolare. Ogni pochi minuti, sentiva il peso dell’orologio scivolare sulla sua pelle, il suo ticchettio silenzioso più forte del motore.

Al semaforo rosso, Emma guardò il cane e poi il cielo, pallido e vasto sopra la città.

«Non ti perdono», disse dolcemente al sedile vuoto. «Non ancora».

Il semaforo cambiò. Lei proseguì.

«Ma ci proverò», aggiunse, abbastanza forte da essere sentita dal ticchettio dell’orologio e forse anche da qualcosa oltre esso. «Per lui. Per te. Per me».

Lucky scodinzolò due volte, come se rispondesse per tutti loro.

Nello specchietto laterale, la piccola casa di mattoni diventava sempre più piccola, fino a diventare solo un puntino all’orizzonte, e da qualche parte dentro Emma, in un luogo che aveva tenuto congelato per anni, qualcosa finalmente cominciò a sciogliersi.

dreamy-smile.com