La terza mattina dopo il funerale di mio padre, ho trovato una busta attaccata con del nastro adesivo al nostro vecchio frigorifero con il mio nome scritto con la sua calligrafia tremolante, e il mio primo pensiero è stato che qualcuno stesse facendo uno scherzo crudele a una figlia in lutto

La terza mattina dopo il funerale di mio padre, ho trovato una busta attaccata con del nastro adesivo al nostro vecchio frigorifero con il mio nome scritto con la sua calligrafia tremolante, e il mio primo pensiero è stato che qualcuno stesse facendo uno scherzo crudele a una figlia in lutto.

Il nastro adesivo era storto, come se fosse stato attaccato in fretta. Mio fratello Max dormiva ancora sul divano letto in soggiorno, con un braccio sugli occhi. La casa odorava di caffè stantio e gigli provenienti dalle pompe funebri. La tazza di mia madre, con il bordo blu scheggiato, era nel lavandino: era partita per l’ospedale prima dell’alba, il suo primo turno senza di lui ad aspettarla a casa.

Rimasi lì in piedi a piedi nudi sulle piastrelle fredde, con la busta in mano. La calligrafia era inconfondibile. Le lettere di papà erano sempre un po’ inclinate in avanti, come se avessero fretta di arrivare da qualche parte.

Il petto mi si strinse. Lo avevamo seppellito tre giorni prima. Avevo guardato la bara che veniva calata nella terra. Avevo gettato una manciata di terra bagnata e scura con le dita tremanti.

Per un intero minuto rimasi a fissarla. Poi feci scivolare il pollice sotto il lembo.

Dentro c’era un unico foglio di carta, piegato due volte. Nessuna data. Nessun saluto. Solo quattro righe:

“Controlla la soffitta.
Hai dimenticato qualcosa.
Non lasciarla di nuovo sola, Emma.
— Papà»

Lei.

Rilessi quella parola più e più volte, finché le lettere non divennero sfocate. Mi venne un conato di nausea, perché sotto lo shock c’era qualcos’altro: il riconoscimento. Un ricordo che avevo trascorso dieci anni a rinchiudere nell’angolo più buio della mia mente.

«Em?» La voce roca di Max proveniva dalla porta. «Perché sei sveglia così presto?» Sbadigliò, strofinandosi gli occhi.

Appallottolai il biglietto nel pugno prima che potesse vederlo. «Non riuscivo a dormire», risposi. «Caffè?»

Lui annuì e si trascinò al tavolo, senza notare le mie mani tremanti. Mentre il bollitore fischiava, infilai il biglietto in tasca, la carta che mi scricchiolava contro il palmo come una piccola voce accusatoria.

Per tutto il giorno, la porta della soffitta in fondo al corridoio mi sembrò diventare sempre più grande. Papà l’aveva inchiodata anni prima, dopo che una delle travi del tetto aveva iniziato a cedere. «È troppo pericoloso», aveva detto sorridendo, ma i suoi occhi mi avevano lanciato un’occhiata veloce, come per controllare la mia reazione.

Ora capivo quello sguardo.

Nel tardo pomeriggio, dopo che Max era uscito per sbrigare delle pratiche burocratiche e mia madre aveva chiamato dall’ospedale con voce flebile ma determinata, non riuscii più a resistere. Presi un martello dalla cassetta degli attrezzi e andai nel corridoio.

La mia mano si bloccò sul primo chiodo. Dieci anni mi sono sfuggiti in un attimo: una manina nella mia, calda e appiccicosa di marmellata; una risatina acuta e echeggiante proprio in questa casa; una promessa sussurrata tra i capelli morbidi che profumavano di shampoo per bambini.

«Tornerò. Lo giuro».

Deglutii a fatica e strappai il primo chiodo. Poi il secondo. Il legno scricchiolò quando spinsi la porta per aprirla. La polvere danzava nella striscia di luce.

La soffitta era esattamente come la ricordavo: soffitto basso, scatole ammucchiate come ricordi dimenticati, la piccola finestra rotonda offuscata dalle ragnatele. L’aria profumava di legno secco e di qualcos’altro, un odore tenue, come di stoffa vecchia e… lavanda?

Entrai, chinandomi sotto una trave, con il cuore che batteva così forte da riempire il silenzio. Verso il fondo, dove il tetto era inclinato, c’era un vecchio armadio di legno, con l’anta leggermente socchiusa.

Le gambe mi sembravano intorpidite mentre attraversavo la stanza. Aprii l’anta.

All’interno, sul ripiano più basso, giaceva un piccolo coniglio di peluche con un orecchio mezzo strappato, che indossava un nastro viola sbiadito.

Mi si mozzò il respiro.

«Lily», sussurrai.

Il nome aveva il sapore del sale sulla mia lingua.

La soffitta si offuscò mentre le lacrime mi riempivano gli occhi. Mi inginocchiai, stringendo il peluche al petto. Il biglietto di papà mi bruciava le costole. Non lasciarla di nuovo sola.

Dieci anni fa avevo diciassette anni ed ero arrabbiata con il mondo intero. Arrabbiata con la nostra piccola casa, con il nostro frigorifero vuoto, con i volti esausti dei miei genitori. Arrabbiata con la piccola bambina inaspettata che era arrivata quando mia madre aveva quarantadue anni e mio padre aveva appena perso il lavoro.

L’avevano chiamata Lily. Era nata prematura. I suoi polmoni erano deboli. I medici dicevano che forse non sarebbe sopravvissuta all’inverno.

Avevo promesso di aiutare. All’inizio ero sincera. A volte la portavo in soffitta, lontano dal rumore della TV, e ci sedevamo vicino alla piccola finestra rotonda. Le mostravo le stelle e le raccontavo tutti i posti in cui sarei andata un giorno.

E poi me ne andai davvero.

Una lite con mia madre sul college, sui soldi, sulle responsabilità. Parole dure. Porte sbattute. Quella notte feci una valigia e lasciai un biglietto in cui dicevo che mi dispiaceva, che avrei mandato dei soldi, che avevo solo bisogno di respirare.

Non tornai mai in tempo.

Due mesi dopo, papà mi chiamò da questa cucina. La sua voce tremava mentre pronunciava le parole che temevo e che tuttavia non avevo mai creduto davvero di sentire: “Se n’è andata, Emma”.

Non sono andata al funerale. Mi sono detta che non potevo permettermi il biglietto, che gli esami erano importanti. La verità era che non riuscivo ad affrontare i loro sguardi. O la sua piccola tomba.

Papà non ha più parlato di Lily dopo quella volta. Quando finalmente sono tornata, anni dopo, lei era un vuoto nelle nostre conversazioni, un silenzio che evitavamo accuratamente.

Fino ad ora.

Il pavimento della soffitta scricchiolò dietro di me. Mi voltai di scatto, asciugandomi gli occhi con il dorso della mano.

Max era sulla soglia, con il viso pallido. «Ho sentito dei rumori. Che ci fai qui sopra?» Il suo sguardo cadde sul coniglio di peluche. Si bloccò.

«L’hai tenuto?» sussurrò.

«Non sono stata io», dissi con voce roca. «È stato papà». Tirai fuori il biglietto dalla tasca e glielo porsi.

Lo lesse lentamente, muovendo le labbra. Quando ebbe finito, strinse la mascella. «Sapeva che ti avrebbe distrutta», disse Max con voce sommessa.

«Avrebbe dovuto», sbottai, poi sentii la mia voce, acuta e sulla difensiva, e sussultai. «Voglio dire… me ne sono andata. Ho lasciato lei. Ho lasciato tutti voi».

Max si appoggiò a una trave, sembrando improvvisamente più vecchio dei suoi ventisei anni. «Eri una ragazzina, Em».

«Avevo diciassette anni», dissi. «Ero abbastanza grande per scappare. Abbastanza grande per restare». Le parole mi uscirono di getto. «Se fossi rimasta qui… forse lei non avrebbe…».

«Basta». La voce di Max squarciò l’aria densa di polvere. «Pensi di essere l’unica a portare questo peso? Pensi che io non ripensi ogni notte a quando ho dormito invece di andare a controllarla? O a tutte le volte che mi sono lamentato del rumore quando piangeva?».

Mi tremavano le ginocchia. Mi accasciai su una vecchia cassa. Gli occhi a bottone del coniglio mi fissavano.

Max si avvicinò e si accucciò, il pavimento scricchiolò sotto il suo peso. «Papà non ti ha lasciato quel biglietto per punirti», disse. «Sai com’era fatto. Ha passato l’ultimo anno a scrivere lettere. A mamma. A me. A te. A se stesso, credo».

Chiusi gli occhi, immaginando papà seduto proprio a quel tavolo al piano di sotto, con il tubo dell’ossigeno nel naso e la mano tremante che stringeva una penna.

«Una volta mi disse», continuò Max, «che la cosa peggiore non è morire. È lasciarsi alle spalle tempeste irrisolte. Disse che temeva che avresti passato tutta la vita fuori da questa casa, ma continuando a vivere in quella notte in cui te ne sei andata».

Un singhiozzo mi sfuggì. «Aveva ragione», sussurrai.

«Quindi forse», disse Max dolcemente, toccando l’orecchio del coniglio, «questo è lui… che cerca di aprire la finestra. Per far uscire la tempesta».

Rimanemmo seduti lì nella luce che andava scemando, due figli adulti in una soffitta che un tempo ne aveva ospitato un terzo. La casa gemeva dolcemente intorno a noi, come se anche lei fosse stanca di trattenere il respiro.

«Andiamo», disse infine Max, alzandosi e tendendomi la mano. «Portala con te».

Esitai, poi presi la sua mano e il coniglio. Scendemmo le scale insieme.

Nel cortile sul retro, il cielo era una cupola azzurra pallida. L’erba intorno al vecchio melo era ancora appiattita dove le persone si erano fermate dopo il funerale, sussurrando condoglianze che mi sembravano cotone nelle orecchie.

Max prese una piccola scatola di legno dal capanno, quella che papà usava per tenere i chiodi. La rivestimmo con uno dei fazzoletti di papà. Ci misi dentro il coniglio, lisciando il nastro viola.

«Cosa stiamo facendo?», chiesi con voce tremante.

«Le stiamo dando un posto», disse semplicemente Max. «Così non sarà più solo un fantasma della soffitta».

Scavammo una piccola buca sotto il melo, vicino al punto in cui papà ci aveva costruito un’altalena. Il terreno era più morbido di quanto mi aspettassi. Quando la scatola fu calata nella buca, le mie mani si librarono sopra di essa.

«Mi dispiace», sussurrai, senza sapere se mi stessi rivolgendo a Lily, a papà o alla ragazzina spaventata che ero stata. «Avrei dovuto tornare. Avrei dovuto restare. Io… non ho mai smesso di pensarti».

Il vento si alzò, facendo frusciare le foglie. Da qualche parte, un cane abbaiò. Un’auto passò per strada. La vita, indifferente e implacabile, continuava.

Max coprì la scatola con la terra, con movimenti sicuri. Quando ebbe finito, restammo lì in silenzio.

«Papà ha chiesto al figlio del vicino di chiudere con del nastro adesivo quella busta stamattina», disse all’improvviso. «Gliel’aveva data settimane fa. Gli aveva detto che avrebbe saputo quando fosse stato il momento giusto».

«Certo che l’ha fatto», mormorai, con una risata soffocata. Papà, che pianificava il suo intervento spettrale.

Max mi diede una gomitata. «Ora sei qui, Em. È quello che voleva. Non voleva che vivessi nel “se”».

Guardai la zolla di terra fresca, la casa con la vernice scrostata e le finestre logore, il volto stanco ma gentile di mio fratello.

«Non so come risolvere tutto questo», ammisi.

«Forse non dobbiamo risolverlo», disse Max. «Forse dobbiamo solo… restare. Ricordare. Riprovare».

Il dolore era ancora lì, pesante e crudo. Ma qualcosa era cambiato, come una finestra socchiusa in una stanza chiusa da tempo.

Quella sera mi sedetti al tavolo della cucina con un quaderno bianco davanti a me. La mano mi tremava mentre scrivevo la prima riga:

«Caro papà, sono andata in soffitta».

Le parole venivano lentamente, ma venivano. Del coniglio di Lily. Della tomba improvvisata sotto il melo. Del biglietto che aveva lasciato e che mi aveva spezzato il cuore invece di semplicemente romperlo.

Quando finii, avevo gli occhi che bruciavano, ma il petto mi sembrava un po’ più leggero.

Piegai la lettera e la misi accanto alla sua vecchia tazza sul tavolo. Poi andai nel corridoio e guardai la porta della soffitta.

Era ancora leggermente socchiusa.

Non la chiusi.

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