La donna sulla panchina del parco continuava a dare da mangiare ai piccioni con mani tremanti, finché Emma non capì che la signora anziana stava conservando tutto il pane fresco per qualcuno che non sarebbe mai arrivato

La donna sulla panchina del parco continuava a dare da mangiare ai piccioni con mani tremanti, finché Emma non capì che la signora anziana stava conservando tutto il pane fresco per qualcuno che non sarebbe mai arrivato.

Emma la notò per la prima volta un martedì, mentre attraversava di corsa il piccolo parco cittadino con un caffè in una mano e il telefono nell’altra. La donna anziana era seduta sulla stessa panchina verde scrostata, con un cappotto marrone ben stirato abbottonato fino al collo e una sciarpa blu accuratamente annodata. Una busta di plastica con del pane era appoggiata sulle sue ginocchia. Spezzava piccoli pezzi, li gettava ai piccioni e, ogni minuto circa, alzava la testa per guardare il cancello del parco con una strana, luminosa aspettativa.

Mercoledì, Emma la vide di nuovo. Stessa panchina, stesso cappotto, stessa busta di pane. I piccioni si affollavano intorno alle sue scarpe. Ancora una volta, quello sguardo speranzoso verso il cancello, come se qualcuno di importante fosse in ritardo.

Venerdì, la curiosità aveva iniziato a tormentare Emma più dei suoi problemi. Aveva delle scadenze, un capo irritabile di nome David e un ex marito che si ricordava del compleanno della loro figlia solo quando glielo ricordavano i social media. Tuttavia, rallentò il passo, fingendo di controllare il telefono a pochi passi dalla panchina.

La donna anziana aprì un tovagliolo di carta. All’interno c’era un piccolo panino perfetto avvolto nella pellicola trasparente. Non lo mangiò. Lo mise semplicemente accanto a sé sulla panchina, lisciando il tovagliolo come se fosse qualcosa di sacro, poi fissò di nuovo il cancello del parco.

La settimana successiva, Emma finalmente si fermò.

«Salve», disse, sentendosi ridicola per aver parlato con una sconosciuta quando avrebbe dovuto essere in riunione già da dieci minuti. «Sembra che piaccia ai piccioni».

La donna alzò lo sguardo. I suoi occhi erano chiari, quasi incolori, ma incredibilmente limpidi.

«Sono sempre puntuali», rispose dolcemente, con un leggero accento che Emma non riuscì a identificare. «Non come le persone».

Emma sorrise in modo educato e imbarazzato. «Le dispiace se mi siedo un attimo?».

La donna diede un colpetto alla panchina. Da vicino, Emma notò il tremore di quelle dita sottili, i polsini sfilacciati del cappotto, le scarpe lucidate con cura nonostante l’età.

«La vedo spesso qui», disse Emma. «Vive nelle vicinanze?»

«Proprio dall’altra parte della strada», rispose la donna, indicando con un cenno del capo un edificio malandato oltre gli alberi. «Mi chiamo Lara».

«Io sono Emma».

Lara sorrise al panino sul tovagliolo. «Aspetto mio figlio qui. Lavorava vicino a questo parco. Ci incontravamo sempre su questa panchina dopo il suo turno. Gli portavo il pranzo. Lo faccio ancora».

Emma sentì qualcosa di freddo cadere nello stomaco. «È… dolce. Lavora fino a tardi adesso?»

Il sorriso di Lara non vacillò, ma i suoi occhi tornarono a posarsi sul cancello del parco. «Ha detto che verrà quando potrà. Il lavoro è difficile. La vita è costosa. I giovani corrono, corrono, corrono». Ridacchiò debolmente, come se recitasse una battuta che aveva provato. «A volte fa molto tardi».

«Quanto spesso… viene?», chiese Emma con cautela.

«Oh, è molto impegnato», disse Lara, lisciandosi la sciarpa. «Ma io vengo tutti i giorni. Così lui sa dove trovarmi. Una madre deve rendergli le cose facili».

Emma guardò il panino intatto, il modo accurato in cui erano stati tagliati i bordi e rimosse le croste. «Ha mai… saltato il pranzo?».

«Una volta», rispose Lara. La sua voce si affievolì, come fa la carta vecchia quando la si apre troppo spesso. «Poi due volte. Poi… è passato un po’ di tempo. Ma verrà. È il mio Alex. Correva dalla fermata dell’autobus, così spaventato che io aspettassi da sola».

Una folata di vento sollevò i bordi del tovagliolo. Emma deglutì. «Da quanto tempo, Lara?»

Lara sbatté lentamente le palpebre. «Quattro anni. Forse cinque. Il tempo è… rumoroso. Non lo sento più bene. Ma una madre lo sa. Verrà quando potrà respirare di nuovo».

Il mondo sembrò inclinarsi. Emma pensò a sua madre, che chiamava due volte alla settimana e si scusava sempre prima di chiederle come stava. Pensò ai messaggi senza risposta che aveva lasciato sul telefono del suo ex marito prima dell’ultima recita scolastica della figlia.

«Hai il suo numero?», chiese Emma a bassa voce.

Lara annuì e tirò fuori un piccolo taccuino consumato. Su una pagina, scritto con cura, c’era un numero di telefono e un nome: Алекc. Le ultime cifre erano sbavate.

«Ho chiamato», disse Lara. «È… come si dice… scollegato. Forse l’ha cambiato. I giovani cambiano tutto, telefoni, lavori, paesi. Ma questa panchina», accarezzò il legno, «questa rimane».

Emma fissò il numero. La sbavatura, l’inchiostro sbiadito. Un’idea le venne in mente, sgradita e brutta.

«Lara… sai dove lavora adesso?»

«Lavorava nel cantiere vicino al fiume», disse Lara. «Molto pericoloso. Gli dicevo: indossa il casco, mangia il tuo pranzo. Lui rideva. Diceva: “Mamma, non mi succederà niente”».

Il tempo passato si frapponeva tra loro come un macigno.

Emma sentì la gola stringersi. Ricordò una notizia di anni prima: il crollo di un’impalcatura vicino al fiume, diversi operai feriti, uno morto. Allora non ci aveva prestato attenzione. Era troppo occupata a discutere con David su un brief di un cliente.

«Qual era il suo cognome?», chiese Emma, con un filo di voce.

Lara rispose, e la risposta fu esattamente quella che Emma temeva. Il nome le era familiare; lo aveva sentito al telegiornale, una fugace menzione tra tante altre. Una tragedia che aveva riempito trenta secondi di trasmissione e poi era svanita.

Emma improvvisamente capì la terribile ironia della situazione: Lara non stava aspettando un figlio distratto che era andato avanti e aveva dimenticato sua madre. Stava aspettando qualcuno che non sarebbe mai potuto tornare, perché nessuno le aveva mai detto che se n’era andato.

«Lara», esordì Emma con gli occhi lucidi, «riguardo all’incidente al fiume… ti ricordi di averne sentito parlare?».

Lara aggrottò leggermente la fronte, come se stesse cercando in un angolo buio della sua mente. «Ci sono molti incidenti in televisione. Non mi piace guardarla. Troppa tristezza. Preferisco venire qui. Qui ricordo mio figlio da giovane». Sorrise, con un’espressione fragile, quasi infantile. «Se non sento cattive notizie, forse non gli è successo. Capisci?»

Emma capiva. Fin troppo bene. Il suo lavoro era fatto di dati e fatti, metriche e risultati. Ma seduta accanto a quella donna, i fatti sembravano coltelli.

Guardò di nuovo il panino. Perfetto, intatto, già secco ai bordi. I piccioni beccavano le briciole sparse di pane raffermo vicino alle scarpe di Lara.

«Perché dai loro sempre pane vecchio e conservi quello fresco?» chiese Emma con dolcezza.

Gli occhi di Lara si illuminarono. «Quello fresco è per Alex. Non gli piace il pane secco. Quando era piccolo, faceva una smorfia e diceva: “Mamma, mi fa male ai denti”. Quindi gli porto pane morbido. Ogni giorno».

Il telefono di Emma vibrò nella sua tasca. Probabilmente era David che voleva sapere dove fosse. Per una volta, non le importava.

«Lara… se… se Alex non potesse venire», disse Emma lentamente, «vorresti saperlo? O preferiresti continuare ad aspettare?»

Lara la guardò con una strana, acuta lucidità. I piccioni frusciarono ai loro piedi.

«Una madre lo sa sempre», disse. «Anche quando nessuno glielo dice. Qui», si toccò il petto, «so che è successo qualcosa. Ma qui», picchiettò delicatamente sulla panchina, «mi piace ancora aspettare. Perché quando aspetto, lui è solo in ritardo. Non se n’è andato».

La vista di Emma si offuscò. Pensò a tutte le volte che era passata di corsa davanti a quel parco senza vedere nessuno. Quante Lara aveva perso? Quante panchine come questa esistevano, sostenendo il peso di un dolore invisibile?

«Posso sedermi con te qualche volta?», chiese Emma. «Così non sarai sola mentre aspetti?».

Il viso di Lara si illuminò in un modo che il debole sole invernale non avrebbe mai potuto fare. «Mi farebbe molto piacere. Puoi parlarmi del tuo lavoro, della tua vita. Mi piacciono le storie. Alex mi raccontava tutto. Ero la sua migliore ascoltatrice».

Emma rise, un suono spezzato e umido. «Va bene. Sarò la tua nuova ascoltatrice».

Prese il panino, lo scartò e ne prese un piccolo morso.

«Stai mangiando il suo pranzo», disse Lara sorpresa.

«Solo per non sprecarlo», rispose Emma, sforzandosi di sorridere. «Se viene, gliene compreremo uno fresco insieme. Affare fatto?»

Per un attimo, qualcosa nel volto di Lara si sgretolò, una sottile barriera di negazione che cedette sotto il peso degli anni. Poi annuì.

«Affare fatto».

I giorni diventarono settimane. Emma iniziò a organizzare i suoi impegni in base al parco. Nei fine settimana portava con sé sua figlia Nina. Nina si sedeva accanto a Lara e le mostrava i suoi disegni scolastici, mentre Lara li ascoltava come se fossero capolavori.

Emma non disse mai direttamente a Lara che Alex se n’era andato. Invece, intrecciò delicate verità tra storie e silenzi: come a volte l’amore dovesse accettare sedie vuote, come i ricordi potessero essere una sorta di presenza. Lara, a sua volta, iniziò a portare solo mezzo panino.

«Uno per te», disse a Emma un martedì, «e uno per gli uccelli. Alex ora mangia nei miei ricordi. Lì il pane è sempre fresco».

I piccioni svolazzavano intorno ai loro piedi. Il cancello del parco era aperto, come sempre. La panchina le sosteneva entrambe, un pezzo di legno stanco che portava due donne e un ragazzo che non sarebbe mai cresciuto più di quanto sua madre ricordasse.

Emma guardò le mani di Lara, che tremavano ancora, che spezzavano ancora il pane con cura.

Tirò fuori il telefono e, per la prima volta dopo anni, chiamò sua madre prima di andare al lavoro.

«Ciao, mamma», disse quando la voce familiare rispose. «Volevo solo sentirti. E dirti… che sono felice che tu ci sia».

Accanto a lei, Lara sorrise al cancello, ai piccioni, al tovagliolo mezzo vuoto.

«Vedi?», sussurrò Lara, più a se stessa che a Emma. «A volte, quando aspetti abbastanza a lungo, il figlio di qualcuno torna davvero su una panchina».

Emma si chinò e sparse le ultime briciole. I piccioni arrivarono di corsa, proprio al momento giusto.

 

 

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