Il vecchio continuava a recarsi all’ufficio oggetti smarriti ogni venerdì con la stessa foto sbiadita, e quando Emma finalmente un giorno lo seguì, si rese conto che la persona che stava cercando era rimasta dietro di lei per tutto il tempo

Il vecchio continuava a recarsi all’ufficio oggetti smarriti ogni venerdì con la stessa foto sbiadita, e quando Emma finalmente un giorno lo seguì, si rese conto che la persona che stava cercando era rimasta dietro di lei per tutto il tempo.

Emma lavorava alla stazione degli autobus di una piccola città, in una cabina di vetro che odorava di biglietti vecchi e caffè scadente. Il suo titolo professionale era “addetta alle informazioni”, ma per lo più si occupava di smistare ombrelli, sciarpe e sacchetti di plastica pieni di oggetti dimenticati. Il venerdì, poco prima del tramonto, lui arrivava.

Si chiamava Daniel. Aveva le spalle sottili, un cappotto marrone troppo grande, un berretto calcato sulla testa e le mani che tremavano quando apriva la stessa foto consumata. Parlava sempre a bassa voce, come se avesse paura di disturbare qualcosa di fragile nell’aria.

“Per favore, signorina… Qualcuno ha portato questo?”

Faceva scivolare la foto sotto il vetro. Una giovane donna con un vestito estivo a righe, che rideva alla macchina fotografica, i capelli mossi dal vento. Sul retro della foto, con inchiostro blu sbiadito, c’era un nome e una data, ma Emma non era mai riuscita a leggerli chiaramente.

Ogni venerdì, Emma controllava il registro che conosceva a memoria, girava le stesse pagine, scuoteva la testa con la stessa lenta tristezza.

“Non ancora, signor Daniel. Niente del genere oggi.”

Lui annuiva sempre, come se quella risposta fosse scontata. Poi ripiegava con cura la foto nel portafoglio, la ringraziava e si sedeva sulla panchina di metallo vicino alla porta, guardando gli autobus che andavano e venivano fino al calar del buio.

Gli altri al deposito lo chiamavano “il perduto”. Dicevano che era confuso, che stava perdendo la memoria, che cercava qualcuno che probabilmente lo aveva lasciato molto tempo prima. Scherzavano sottovoce quando lui non era nei paraggi. Emma non si univa mai a loro. C’era qualcosa nel modo in cui maneggiava quella foto, come se fosse l’ultima cosa concreta della sua vita.

Un venerdì piovoso, quando il deposito era quasi vuoto, Emma ci riprovò.

“Chi è lei?”, chiese, picchiettando il vetro accanto alla foto.

Lui sorrise, con un’espressione stanca sulle labbra.

“Mia figlia”, disse. “Si chiama Anna. Ha preso questo autobus anni fa. Ha perso questa foto da qualche parte lungo il tragitto. Le ho promesso che l’avrei ritrovata”.

Emma aggrottò la fronte. “Ma… se l’ha persa anni fa…”

«Ha detto che sarebbe tornata a prenderla», la interruppe gentilmente. «Ha detto: “Papà, conservala. Tornerò, te lo prometto”. Così vengo qui. Ogni venerdì. Nel caso qualcuno la trovi e la riporti».

Lo disse con tanta semplicità che Emma non seppe come ribattere. Quando lui se ne andò quella sera, camminando con cautela sotto la pioggia, lei sentì una fitta al petto.

La settimana seguente, Emma si ritrovò a pensare a Daniel a casa. Viveva da sola in una piccola stanza in affitto con la carta da parati scrostata e una luce tremolante in cucina. Aveva lasciato suo padre in un’altra città anni prima, dopo un’aspra discussione sul suo futuro. Da allora non si erano più parlati. A volte, quando la notte era troppo silenziosa, sentiva l’ultima cosa che lui le aveva detto: “Se esci da quella porta, non tornare piangendo”.

Non era mai tornata, ma spesso aveva voglia di piangere.

Venerdì Daniel tornò, come sempre. Stesso cappotto, stessa foto, stesso rituale. Ma questa volta, quando lui iniziò ad allontanarsi, Emma si alzò.

«Signor Daniel», lo chiamò. «Aspetti».

Lui si fermò sulla porta, sorpreso.

«Dove va dopo?», gli chiese.

Lui sbatté le palpebre, pensando. «A casa, immagino».

«Posso… accompagnarla?». Le parole le uscirono di bocca prima che capisse perché.

Camminarono lentamente sul marciapiede bagnato, oltrepassando negozi chiusi e semafori lampeggianti. Daniel parlò di piccole cose: il gatto del vicino, il prezzo del pane, il fatto che le mattine fossero più fredde ora. Emma ascoltava, lanciando sguardi furtivi alle sue mani sottili, al modo in cui custodiva il portafoglio con la foto all’interno.

Raggiunsero un grigio condominio con gradini crepati. Daniel si fermò.

«Sono arrivato», disse. «Grazie per la compagnia, signorina…».

«Emma», lo aiutò lei.

«Emma», ripeté, come se volesse imprimerselo bene nella memoria. «Sei molto gentile».

Lei esitò. «Posso chiederti… Anna vive qui con te?»

Il suo sguardo si spostò oltre lei, verso una finestra al terzo piano.

«Prima viveva qui», disse dolcemente. «Poi se n’è andata. Era arrabbiata. Diceva che questo posto era troppo piccolo… che io non la capivo. Ha preso un autobus dalla vostra stazione. Mi è rimasta solo questa foto».

Si batté il petto. «Ha detto che sarebbe tornata a prenderla. È solo in ritardo, tutto qui. I giovani sono sempre in ritardo».

Emma sentì qualcosa stringersi dentro di sé. Immaginò una versione più giovane di se stessa, con lo zaino sulle spalle e la rabbia che le bruciava in gola. Immaginò suo padre, in piedi sulla soglia, che la guardava andare via.

«Forse sta cercando di ritrovare la strada per tornare», disse Emma a bassa voce.

Daniel sorrise di nuovo, distante. «Allora devo mantenere la mia promessa, vero?».

Quella notte, Emma non riuscì a dormire. Le sue parole le risuonavano nella mente. Pensò alle promesse, alle foto perdute, ai biglietti dell’autobus senza data di ritorno. All’improvviso, il suo ostinato silenzio le sembrò crudele.

Il venerdì successivo, prima del suo turno, Emma fece qualcosa di impulsivo. Prese un autobus presto per andare dall’altra parte della città, in un edificio basso e beige con un’insegna blu: City Hospital. Con il cuore che batteva forte, si avvicinò al banco informazioni.

«Sto cercando il paziente Daniel…», iniziò, poi si fermò. Non sapeva nemmeno il suo cognome.

L’infermiera scosse la testa. “Non diamo informazioni del genere senza i familiari”.

“Non sono un familiare”, ammise Emma. “Sono solo… una persona della stazione degli autobus”.

L’espressione dell’infermiera si addolcì. “Ieri sera è stato portato qui un anziano dalla zona della stazione degli autobus. Aveva con sé un biglietto. È sicura che si chiami Daniel?”

Emma trattenne il respiro. “Che biglietto?”

L’infermiera frugò e tirò fuori un piccolo foglio piegato. “C’era scritto solo: ‘Se dimentico dove mi trovo, il venerdì vado alla stazione degli autobus. Mia figlia tornerà a prendere la sua foto’. Firmato ‘Daniel M.’

“Sta bene?” sussurrò Emma.

“È stabile”, rispose l’infermiera. “Ma la sua memoria… va e viene. Conosci la sua famiglia?”

Emma aprì la bocca per dire di no. Invece, si sentì dire: «Credo… di conoscere il nome di sua figlia».

L’infermiera la studiò. «Se riesci a contattarla, per favore fallo. Continua a chiedere se qualcuno ha portato una foto».

Emma uscì dall’ospedale con le gambe tremanti. Sull’autobus del ritorno, fissò il suo riflesso nel finestrino e non vide se stessa, ma una ragazza che suo padre forse stava ancora aspettando.

Quando arrivò alla stazione, aveva preso una decisione che la terrorizzava. Con le dita intorpidite, prese il telefono dell’ufficio e compose un numero che non chiamava da anni.

Il telefono squillò così a lungo che stava per riagganciare. Poi una voce roca e familiare rispose.

«Pronto?»

La gola le si chiuse. «Papà…»

Silenzio. Poi, con cautela: «Emma?»

Chiuse gli occhi. «Mi dispiace di essere scomparsa. Sto… sto bene. È solo che… ho incontrato un vecchio che aspetta sua figlia ogni venerdì. Pensa che lei tornerà per una foto. Mi ha fatto pensare a te».

Suo padre espirò, emettendo un suono a metà tra un singhiozzo e una risata.

«Anch’io ho aspettato», disse con voce roca. «Ogni compleanno, ogni Capodanno… Pensavo che avresti bussato alla porta. Ma non sapevo come chiamarti senza peggiorare le cose».

Parlarono, inciampando su anni di parole non dette. Quando lei gli raccontò di Daniel, della stazione degli autobus, dell’ospedale, suo padre rimase in silenzio per un lungo momento.

«Vai da lui», disse infine. « Se sua figlia non tornerà, almeno qualcuno l’ha fatto».

Il venerdì successivo, Emma andò all’ospedale invece che alla stazione degli autobus. Trovò Daniel seduto sul letto, con lo sguardo fisso sul muro bianco. Il suo portafoglio era sul comodino, aperto, con la foto che spuntava per metà.

«Signor Daniel?», disse dolcemente.

Lui girò lentamente la testa. I suoi occhi erano annebbiati, cercavano qualcosa.

«Anna?», sussurrò.

Il cuore di Emma si spezzò. «No… Sono Emma. Della stazione degli autobus».

Lui sbatté le palpebre, confuso, poi guardò la foto. Le sue dita la cercarono a tentoni.

«Doveva venire», mormorò. «Per questo. Le avevo promesso che l’avrei conservata per lei».

Emma si sedette sulla sedia accanto al suo letto. «Hai mantenuto la tua promessa», disse. «Hai fatto tutto quello che potevi».

Lui la fissò a lungo, con uno sguardo che si schiariva.

«Sei venuta», disse all’improvviso. «Ogni venerdì eri lì. Ti sei ricordata di me».

«Sì», rispose Emma con voce tremante.

La sua mano tremò mentre le porgeva la foto.

«Allora… forse ora dovresti tenerla tu al sicuro», sussurrò. «Nel caso in cui lei venisse quando io non ci sarò più per dargliela».

Le lacrime offuscarono la vista di Emma mentre prendeva la foto. La giovane donna con il vestito a righe le sorrideva da un’altra estate, da un’altra vita.

«La terrò io», promise Emma. «Sarò alla stazione ogni venerdì. Se verrà, gliela darò».

Il respiro di Daniel rallentò. Un piccolo sorriso sereno gli sfiorò le labbra.

«Bene», sospirò. «Qualcuno… sta aspettando».

Qualche giorno dopo, quando Emma era di nuovo nella sua cabina di vetro, con la foto appuntata con cura accanto al suo orario, i passeggeri andavano e venivano come sempre. Alcuni chiedevano informazioni sugli autobus, altri si lamentavano dei ritardi, altri ancora lasciavano oggetti dimenticati. Emma annotava tutto.

Ogni venerdì guardava la porta. Sapeva che Anna avrebbe potuto non varcarla mai. Sapeva che la giovane donna nella foto poteva essere scomparsa o vivere una vita lontana. Ma ora, mentre aspettava, aspettava anche un colpo diverso su una porta diversa: quella di suo padre, o forse la sua su quella di lui.

Gli altri alla stazione continuavano a chiamare Daniel “il perduto”, anche se lui non sedeva più sulla panchina. Ma Emma conosceva la verità che nessun altro vedeva: a volte i perduti non sono quelli che vagano con le foto in tasca, ma quelli che stanno lontani per orgoglio.

In un venerdì particolarmente luminoso, mentre il sole del tardo pomeriggio riempiva la stazione di luce dorata, il telefono sulla scrivania di Emma squillò. Lei rispose.

“Emma?”, disse la voce di suo padre, questa volta più calorosa. “Stavo pensando… Forse potrei venire a trovarti. Prenderò l’autobus. Potresti… venirmi a prendere alla stazione?”

Emma guardò la foto di Anna, la porta dove Daniel era solito stare, la panchina dove aveva aspettato.

“Sì”, disse, con un sorriso che le increspava la voce. “Sarò qui. Ti aspetterò”.

E mentre riattaccava, si rese conto che, in un certo senso, Daniel aveva finalmente trovato ciò che cercava: non solo una fotografia perduta, ma qualcuno che capisse che le cose più preziose che perdiamo sono le persone che smettiamo di aspettarci che tornino.

Così Emma rimase. Ogni venerdì. Non solo per Anna, non solo per suo padre, ma per tutte le promesse silenziose lasciate sui biglietti dell’autobus e sulle panchine vuote – e per un vecchio che le aveva insegnato che aspettare, con amore invece che con rabbia, a volte poteva riportare a casa chi si era perso.

dreamy-smile.com