Quando Emma vide suo padre seduto sulla panchina fuori dal rifugio, pensò che fosse finalmente venuto a prenderla per portarla a casa, ma il foglio che aveva in mano diceva altro

Quando Emma vide suo padre seduto sulla panchina fuori dal rifugio, pensò che fosse finalmente venuto a prenderla per portarla a casa, ma il foglio che aveva in mano diceva altro.

Emma premette la fronte contro il freddo vetro della finestra del rifugio cittadino, il suo respiro lasciava piccole nuvole sul vetro. Fuori, sulla panchina di legno consumata vicino all’ingresso, era seduto Mark, l’uomo che ancora si sforzava di chiamare papà. Una sottile cartellina tremava tra le sue mani. Continuava a guardare l’orologio, poi la porta, poi di nuovo la cartellina.

“È venuto”, sussurrò Emma, senza sapere se fosse felice o terrorizzata.

Accanto a lei, l’assistente sociale Laura seguì il suo sguardo. «È in anticipo», disse Laura a bassa voce. «È un buon segno, Emma».

Emma non rispose. Ricordava altre volte in cui era arrivato in anticipo: in anticipo per andarsene, in anticipo per bere, in anticipo per urlare. Le sue dita si strinsero sulla tracolla del suo zaino logoro. Il personale le aveva detto che questo incontro era importante, che oggi avrebbero finalmente avuto chiarezza.

«Vieni», disse Laura. «È sobrio da sei mesi ormai. Ascoltiamo cosa ha da dire».

Sei mesi. Anche Emma li aveva contati. Sei mesi dall’ultima volta che lui si era presentato al rifugio con gli occhi vitrei, puzzando di bottiglie vecchie e sigarette scadenti. Sei mesi da quando lei lo aveva visto firmare l’ennesimo documento e andarsene senza voltarsi indietro.

Oggi, però, indossava una camicia blu pulita, abbottonata male sul colletto, e teneva quella cartella come se potesse esplodere. Quando Emma e Laura uscirono, la luce brillante del pomeriggio le avvolse in un calore che Emma non sentiva.

Mark si alzò troppo in fretta, quasi facendo cadere la cartella. «Emma», disse, con la voce che si incrinò sulla prima sillaba.

Lei si fermò a un metro di distanza. «Ciao», rispose, sentendo improvvisamente la sua lingua inglese troppo grande e pesante nella sua bocca.

Laura fece un cenno gentile con la testa a entrambi. «Sono qui dentro se avete bisogno di me». Fece un passo indietro, ma rimase dove poteva vederli attraverso la porta a vetri.

Mark deglutì, gli occhi che vagavano sul viso di sua figlia: gli stessi occhi nocciola dei suoi, lo stesso mento ostinato. «Sei cresciuta», disse. «Certo che sei cresciuta. È passato… troppo tempo».

Emma alzò le spalle. «Avresti potuto venire», disse piano.

Lui sussultò. «Lo so». Abbassò lo sguardo sulla cartella. «È per questo che sono qui. Per… per sistemare quello che posso».

Il suo cuore ebbe un sussulto. Il modo in cui lo disse – sistemare – suonava quasi come tornare a casa, come fare finalmente le valigie e lasciarsi alle spalle le grigie mura del rifugio. «Mi… mi riporterai a casa?», sbottò.

Per un attimo, la speranza gli illuminò gli occhi, brillante, pura. Poi si affievolì. «Emma, io…» Si interruppe, si sedette di nuovo sulla panchina e le indicò il posto accanto a lui. «Ti prego. Siediti. Lascia che ti spieghi».

Lei rimase in piedi, a braccia conserte. «Puoi parlare. Ti sento bene da qui».

Lui annuì con aria triste e comprensiva. «Va bene». Aprì la cartella con mani tremanti. All’interno c’erano diversi documenti con timbri ufficiali. Su una pagina c’era il suo nome, scritto in grassetto. Emma cercò di leggerlo capovolto, cogliendo solo parole come «collocamento» e «permanente».

«Ho avviato la procedura», disse Mark. «Sono andato alle riunioni, alle sedute di consulenza. Mi hanno detto che se fossi rimasto sobrio e avessi trovato un lavoro stabile, avremmo potuto ricominciare a vivere insieme».

«Me l’hai detto l’anno scorso», disse lei, sentendo la rabbia riscaldarle le guance. «Poi sei scomparso».

«Ho avuto una ricaduta», ammise senza scusarsi. «Ho perso il lavoro. Ho perso di nuovo me stesso». I suoi occhi brillavano. «Ma questa volta… questa volta non ho perso solo me stesso. Ho capito che stavo perdendo te per sempre».

Lei distolse lo sguardo, concentrandosi su una crepa nel marciapiede. «Allora perché sei qui adesso?».

Ci fu una lunga pausa. Anche il traffico in lontananza sembrò zittirsi.

«Perché non voglio che tu rimanga qui ad aspettare un uomo che potrebbe non essere mai il padre che meriti», disse infine.

Lei alzò di scatto la testa. «Cosa significa?»

Lui tirò fuori il documento in cima alla pila e lo girò verso di lei. «Significa che ho firmato il consenso affinché tu venga adottata dalla famiglia che ha fatto richiesta per te».

Per un attimo, il mondo si fece silenzioso. Emma fissò il foglio come se fosse scritto in un’altra lingua.

«Tu… cosa?» La sua voce si spezzò sull’ultima parola.

«C’è una coppia», disse Mark rapidamente, disperato. «Anna e David. Sono venuti a trovarti, hanno parlato con il tuo assistente sociale. Hanno una piccola casa, un cane, un giardino. Ti vogliono, Emma. Vogliono essere i tuoi genitori».

La sua vista si offuscò. «Ho già un padre», sussurrò, senza essere sicura di crederci.

«Sì», disse lui, con le lacrime che ora gli rigavano il viso. «È vero. Hai un padre che ti ama così tanto da aver finalmente capito che potrebbe essere il posto peggiore in cui crescere».

Lei scosse la testa, indietreggiando. «No. No, tu stai solo… ti stai arrendendo. Di nuovo. Come sempre».

«Non mi sto arrendendo con te», insistette lui. «Mi sto arrendendo alla menzogna che posso sistemare tutto abbastanza in fretta da darti un’infanzia vera. Hai tredici anni, Emma. Quanti altri anni dovrai passare a guardare quella porta, chiedendoti se tornerò ubriaco o se non tornerò affatto?».

Quelle parole la colpirono profondamente, perché erano vere. Le notti passate a fissare il soffitto del rifugio, ascoltando gli altri bambini piangere. I compleanni con torte donate e candeline di plastica. Il modo in cui ancora sussultava a ogni voce maschile nel corridoio, pensando che potesse essere lui.

«Potresti continuare a provarci», disse lei, quasi supplicando. «Perché non puoi semplicemente continuare a provarci con me?».

Mark si coprì il viso con le mani per un attimo, con le spalle che tremavano. Quando alzò lo sguardo, c’era qualcosa di nuovo nei suoi occhi: una sincerità stanca che Emma non aveva mai visto prima.

«Continuerò a provarci», disse. «Per me. Per rimanere sobrio, per lavorare, per essere qualcuno di cui tu possa essere orgogliosa da lontano, se è tutto ciò che posso essere. Ma tu… tu meriti più di una promessa che continua a essere infranta. Questa famiglia è pronta ora. Non “forse un giorno”, non “se non berrò più”. Adesso».

Un leggero singhiozzo le sfuggì dal petto. «Quindi mi stai dando via come… come un cane al canile?»

Il suo volto si contorse dal dolore. «No. Sto firmando un documento che dice che tu sei più importante del mio orgoglio. Che la tua possibilità di avere una vera casa è più importante della mia paura di perderti».

Lei si abbracciò, affondando le unghie nelle braccia. «Come può non essere perdermi?»

Esitò, poi infilò la mano in tasca e tirò fuori una piccola foto piegata. La porse, senza avvicinarsi. «Te lo ricordi questo?»

Con riluttanza, lei la prese. Era sgualcita e consumata, i colori sbiaditi. Una Emma molto più giovane era seduta sulle sue spalle in un parco, entrambi ridevano, con il gelato spalmato sui volti. Dietro di loro, sua madre, scomparsa troppo presto, sorrideva alla macchina fotografica.

«L’ho portata con me a ogni incontro», disse Mark con voce roca. «Ogni volta che volevo bere, la tiravo fuori. Mi dicevo: “Non rovinare di nuovo la sua vita”. Ma sto ancora imparando. Sono ancora debole. E tu stai esaurendo il tempo che ti resta per essere solo una bambina.

Anna e David mi hanno mostrato il loro album di foto», continuò. «Hanno preparato una stanza per te. Pareti verde chiaro, una libreria, una scrivania vicino alla finestra. Hanno persino discusso su quali poster ti potrebbero piacere, perché non volevano sbagliare». Un sorriso debole e spezzato gli sfiorò le labbra. «Discutono già di te come fanno i genitori».

L’immagine colpì Emma più di quanto si aspettasse: una stanza con pareti che poteva decorare, una scrivania tutta sua, non condivisa. Persone che discutevano di poster, non di bottiglie.

«E se li odiassi?» chiese con un filo di voce.

«Allora lo dirai al tuo assistente sociale», rispose lui con fermezza. «Hai voce in capitolo. Ma da quello che ho sentito, sono gentili. Pazienti. Non bevono. Vogliono una famiglia». Fece un respiro tremolante. «Voglio che tu abbia ciò che io non ti ho mai dato: la sicurezza che non dipende dal fatto che io abbia avuto una brutta giornata».

Lei si sedette lentamente sulla panchina, mantenendo una distanza prudente tra loro. Per la prima volta da quando era uscita, lo guardò dritto negli occhi. Le rughe agli angoli degli occhi, i capelli grigi alle tempie, il modo in cui le sue mani tremavano anche in quel momento.

«Ti ha fatto male firmare?», gli chiese.

Lui rise una volta, amaramente. «Mi è sembrato di tagliarmi un braccio. Ma quando ho finito… per la prima volta dopo anni, ho sentito di aver fatto qualcosa di giusto per te».

Le lacrime le scivolarono sulle guance, calde e incontenibili. «Ti ho aspettato», disse. «Ogni fine settimana. Ho detto ai bambini: “Mio padre sta meglio. Tornerà”. Ti ho difeso».

«Non me lo merito», sussurrò lui.

«Ma l’ho fatto comunque», disse lei con voce strozzata. «Perché pensavo che un giorno saresti entrato e avresti detto: “Prepara le tue cose, Emma, torniamo a casa”».

Lui deglutì, lasciando scorrere liberamente le lacrime. «Te lo sto dicendo», rispose dolcemente. «Solo che non è la casa che sognavo. La casa di cui hai bisogno».

Rimasero seduti in silenzio per molto tempo, circondati dai rumori della città. Emma tracciò il bordo della vecchia foto con il pollice.

«Ti vedrò ancora?», chiese all’improvviso.

«Se vuoi», rispose lui immediatamente. «Se i tuoi nuovi genitori saranno d’accordo, se il tribunale lo permetterà. Ti scriverò, ti chiamerò, verrò a trovarti sobrio. Sempre sobrio. Non posso prometterti la perfezione, ma posso prometterti che non sparirò mai più senza dire una parola».

Lei rifletté su quelle parole, confrontando l’uomo stanco accanto a lei con il letto vuoto nel dormitorio, i volti che si susseguivano dei bambini che andavano e venivano. Pensò a una stanza verde, a un giardino, a persone che litigavano per dei poster invece che urlare per dei piatti rotti.

Molto lentamente, gli rimise la foto in mano e gli chiuse le dita su di essa.

«Tienila tu», disse. «Così ti ricorderai cosa stai cercando di sistemare».

Lui inspirò bruscamente. «Emma…»

Lei si alzò, con le spalle tremanti. «Non ti perdono. Non ancora. Forse non lo farò per molto tempo». Fece un respiro che le sembrò di saltare da un precipizio. «Ma non voglio più aspettare qui».

I suoi occhi cercarono quelli di lei. «Allora…?»

«Allora li incontrerò», disse lei. «Anna e David. Vedrò la stanza. Ci… ci proverò».

Qualcosa di simile al sollievo e al dolore si dipinse sul suo volto. Si alzò in piedi, ma non la raggiunse. «Grazie», sussurrò. «Per averlo anche solo preso in considerazione».

Emma si voltò verso la porta del rifugio, poi si fermò. Senza voltarsi, disse: «Se ci vado… e se sono bravi… non venire ubriaco a nessuno dei miei compleanni. Mai più. Nemmeno una volta».

«Non lo farò», disse lui con voce ferma, in un modo che sorprese persino lui stesso. «Se dovessi bere di nuovo, non meriterei di vederti affatto».

Lei annuì, si asciugò il viso con la manica del maglione e tornò dentro. Laura la incontrò nel corridoio, con uno sguardo gentile ma curioso.

«Allora?», chiese.

Emma aveva un nodo alla gola. «Possiamo chiamare Anna e David?», disse. «Penso… penso di essere pronta a vedere la stanza».

Attraverso il vetro, vide Mark seduto sulla panchina per l’ultima volta. Era curvo, con la foto stretta al petto e le spalle tremanti. Per la prima volta, capì che lasciarlo andare stava distruggendo anche lui.

Questo non alleviò il dolore. Ma mentre seguiva Laura lungo il corridoio luminoso, per la prima volta dopo anni, la parola “casa” non le sembrò più uno scherzo crudele. Le sembrò una porta, semiaperta, che aspettava.

E dietro di lei, su quella panchina di legno consumata, un padre aveva finalmente scelto il futuro di suo figlio piuttosto che il proprio cuore spezzato.

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