La savana era tranquilla, quasi pigramente dorata. La jeep procedeva lentamente lungo il solito percorso e Maggie, una guida esperta che nel corso degli anni aveva assistito a decine di situazioni pericolose, si sentiva sicura.
Ma tutto cambiò in un paio di secondi.
Quando l’auto si fermò vicino al letto asciutto del fiume per consentire ai turisti di fotografare un branco di zebre al pascolo in lontananza, dietro di loro apparve silenziosamente un elefante. Enorme, polveroso, con zanne imponenti, apparve così silenziosamente che sembrava essere spuntato dal terreno.
«Non muovetevi…» sussurrò Maggie, ma la sua voce si spezzò.
L’elefante si avvicinò. Ancora più vicino.
E poi barrì: un suono assordante, penetrante, che fece gelare il sangue nelle vene a tutti. Maggie rimase paralizzata. I turisti si aggrapparono ai sedili. Nessuno capiva cosa stesse per fare.
Ma ciò che accadde un secondo dopo fece impallidire tutti.
L’elefante si voltò bruscamente, colpì il terreno con le zanne, come se cercasse di scacciare qualcuno. La polvere si sollevò in una nuvola. La terra tremò.
E allora tutti videro ciò che si nascondeva nell’erba alta:
un’enorme quolla, una iena cacciatrice ferita, appostata letteralmente a dieci passi dall’auto. Stava per attaccare, non le persone, ma il piccolo elefantino che era rimasto in disparte e che nessuno aveva notato.
L’elefante agì in preda al panico. In preda alla rabbia.
Stava difendendo il piccolo.

La iena cercò di scappare di lato, ma il gigante infuriato le sbarrò la strada, barrì di nuovo, ancora più forte, e la spinse letteralmente fuori dai cespugli. La predatrice, rendendosi conto che non aveva scampo, si piegò per il dolore e scomparve tra i cespugli.
Solo allora i turisti notarono il piccolo elefantino che tremava dietro la madre, con dei graffi sul fianco: evidentemente avevano già cercato di catturarlo.
L’elefante si voltò verso l’auto, respirando affannosamente.
Per un attimo sembrò che potesse attaccare, per lo stress, la paura, la rabbia. Maggie alzò la mano, senza muoversi.
«Va tutto bene… non siamo nemici…».
L’auto rimase immobile, come parte del paesaggio.
L’elefante guardò a lungo, troppo a lungo.
E poi… annuì improvvisamente con la testa. Si voltò con fatica. E lentamente ricondusse il suo piccolo nell’erba, scomparendo tra gli alberi, come una pietra viva che si dissolve nella foschia del sole.
Quando tutto finì, nessuno in macchina riuscì a dire una parola.
Capirono solo una cosa:
l’elefante li aveva spaventati non perché voleva attaccarli…
ma perché stava difendendo disperatamente la persona a lui più cara.
