Una donna ha deciso di andare a trovare sua madre in ospedale e ha visto con orrore in che condizioni viveva

Evelyn aveva rimandato questa visita per tanto tempo. Si sentiva in colpa ogni giorno, ma il lavoro, suo figlio, le faccende domestiche e il continuo “non ho tempo” sembravano sempre più importanti. Eppure il pensiero che sua madre vivesse da sola in un ospizio non le dava pace.

Una mattina chiuse il portatile, prese la borsa e disse a se stessa:
“Oggi. Niente più scuse”.

Il viaggio durò venti minuti, ma le sembrò un’eternità. Il vecchio edificio si trovava alla periferia della città, circondato da alberi secchi e da una recinzione grigia. Già al primo passo Evelyn avvertì una sensazione spiacevole: l’odore della vecchiaia, del detersivo economico e di qualcosa di acido, che non veniva arieggiato da tempo.

Alla reception nessuno alzò lo sguardo. L’infermiera, senza staccare gli occhi dal telefono, le porse un registro:
«Chi viene a trovare?
Margaret Harris.
Camera 17. In fondo al corridoio.

Il corridoio era lungo, buio, le lampade lampeggiavano. Le pareti erano scrostate. Nessuno parlava. Evelyn passò davanti alle porte aperte e vide degli anziani seduti da soli, alcuni senza coperte, altri su sedie a rotelle, altri ancora con lo sguardo fisso sul soffitto.

Il suo cuore si strinse.

Quando arrivò alla stanza 17, le mani le tremavano. Bussò, ma non ottenne risposta. Allora aprì la porta e il cuore le si spezzò.

La stanza era fredda. Così fredda che le usciva vapore dalla bocca. La finestra era aperta. Sul pavimento c’era dell’acqua proveniente da un termosifone che perdeva. Le lenzuola erano ammucchiate in un angolo, il cuscino era caduto a terra.

E sua madre… era seduta su una sedia, con indosso solo una sottile camicia da notte e coperta da un vecchio lenzuolo. La pelle delle sue mani era gelida, le dita bluastre.
«Mamma…» sussurrò Evelyn.

La donna girò lentamente la testa.
«È la mia bambina?» La voce era debole, appena udibile. «Sei venuta?».

Evelyn le corse incontro, la coprì con una coperta, le scaldò le mani tra le sue e chiuse la finestra.
«Perché sei così infreddolita?».
La madre cercò di sorridere:
«L’ho chiesto… ma se ne sono dimenticati. Dicono che non c’è tempo».

Evelyn sentì la rabbia crescere dentro di sé. Uscì di corsa dalla stanza e quasi gridò:
«Chi è il responsabile della stanza 17?! Perché lì fa così freddo?! Perché non l’hanno coperta?!».

L’infermiera si alzò pigramente:
«Siamo a corto di personale, signora. Sua madre non sta peggio degli altri».

Evelyn si avvicinò, con la voce tremante per la rabbia:
«È la donna che mi ha cresciuta. È una persona, non un numero su un registro!».

Tornò nella stanza, abbracciò sua madre e le disse sottovoce:
«Ti porto via da qui. Oggi. Subito».

La donna le strinse la mano.
«Sapevo… che saresti venuta».

Evelyn l’aiutò ad alzarsi, le mise il cappotto e la avvolse in una sciarpa. Mentre uscivano, gli altri anziani le guardavano con speranza, altri con silenziosa invidia.

E allora Evelyn capì:
A volte il vero orrore non è nell’oscurità, né nelle storie, ma nella facilità con cui le persone dimenticano chi un tempo non le ha dimenticate.

Portò sua madre fuori, dove finalmente faceva caldo.

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