La mattina sul fiume iniziò come al solito. Una fredda nebbia aleggiava sull’acqua, la canna da pesca oscillava tra le sue mani e il suo respiro formava vapore. Sergei pescava in quel posto da più di vent’anni: qui, nell’ansa del vecchio fiume, conosceva ogni zolla, ogni tronco. Ma quel giorno c’era qualcosa che non andava.
Sentì un fischio sommesso, quasi lamentoso, appena percettibile sotto il rumore dell’acqua. All’inizio pensò che fosse un uccello. Poi pensò che forse un cucciolo era rimasto intrappolato da qualche parte. Si mise in ascolto e notò che in lontananza, tra le alghe vicino alla riva, qualcosa si muoveva.
Avvicinandosi, Sergej vide un piccolo batuffolo di pelo bagnato che cercava invano di uscire dall’acqua.
Gli occhi erano enormi, lucidi, spaventati. Era un cucciolo di lontra. Piccolissimo, quasi senza vita.
Sergej non ci pensò due volte: gettò la canna da pesca, entrò nell’acqua gelida fino alle ginocchia e raccolse delicatamente l’animale.
Questo tremava, si aggrappava con le zampe alla manica, piagnucolava come se chiamasse qualcuno.
«Tranquillo, piccolo», sussurrò, avvolgendo la lontra nella sua giacca. «Tutto a posto, tutto a posto, ora va tutto bene».
La portò a casa, la riscaldò, la nutrì con una pipetta e mise una scatola vicino alla stufa. La chiamò Molniya (Fulmine) perché correva per casa come una scintilla impazzita. Dopo una settimana, poi un mese, la lontra si abituò. Dormiva sulle ginocchia di Sergej, portava in giro per casa il suo guanto come se fosse un giocattolo.
Ma poi arrivò il momento di lasciarla andare. In primavera riportò Molniya al fiume.
«Vivi, piccola», le disse, lasciandola andare. Lei si tuffò, si voltò, lo guardò dritto negli occhi e scomparve sott’acqua. Sergej rimase lì a lungo. Le lacrime gli scendevano da sole.
Gli anni passavano. Sergej invecchiava, andava a pescare sempre meno spesso. Il fiume rimaneva per lui come un amico: silenzioso, affidabile. A volte gli sembrava di vedere un musetto familiare tra le onde, ma ogni volta si diceva:
«È solo un’illusione. Molniya è cresciuta da tempo. Ha dimenticato».
Poi arrivò la primavera, esattamente dieci anni dopo quella mattina. Tornò nella stessa ansa del fiume.
Si sedette sul vecchio tronco, calò la canna da pesca e improvvisamente sentì quello stesso squittio. All’inizio era debole, poi più forte.
Alzò la testa e non credette ai suoi occhi.

Dall’acqua lo guardava un’otaria. Adulta, lucida, con lo stesso segno sull’orecchio lasciato dalla ferita di un tempo. E accanto a lei due piccoli batuffoli, altrettanto bagnati e goffi. Fulmine si avvicinò, tirò a riva i suoi cuccioli e li spinse delicatamente verso i suoi stivali. Loro, piangendo, si strinsero a lui, come lei aveva fatto un tempo.
Sergej rimase seduto, immobile. Aveva le lacrime agli occhi. Capì: lei non aveva dimenticato. Era venuta per dimostrare che la vita restituisce il bene, anche dopo anni, anche nel cuore di un fiume selvaggio. Quando la lontra riportò i piccoli in acqua, lui li guardò a lungo. E poi disse piano:
«Grazie, Fulmine… ora sono tranquillo».
Da quel giorno non pescò più. Andava semplicemente al fiume e aspettava. E a volte, quando il sole tramontava, tre ombre apparivano sull’acqua, scivolando vicino alla riva. Lui sapeva: lei era lì.
