È mattina. L’autobus è affollato, c’è odore di giacche bagnate e caffè da bicchieri di carta. La gente va di fretta al lavoro, qualcuno scorre le notizie, qualcuno sbadiglia, qualcuno è già irritato solo per lo spazio ristretto.
Emma era seduta vicino al finestrino, con le cuffie, guardando il telefono. La musica copriva il rumore, lei quasi non si accorgeva di ciò che accadeva intorno a lei. Alla fermata successiva è salita una donna di circa trentacinque anni, con un cappotto lungo e il ventre visibilmente arrotondato.
Si è fermata vicino al corrimano, tenendosi con una mano. Alcune persone alzarono lo sguardo, poi distolsero rapidamente gli occhi. Anche Emma vide il suo riflesso nel finestrino. Pensò: “Qualcun altro si alzerà sicuramente” e tornò a fissare lo schermo.
Passarono un paio di fermate. L’autobus frenò bruscamente e la donna riuscì a malapena a rimanere in piedi. Un uomo si alzò e le offrì il posto, ma la donna rifiutò gentilmente.
“Va tutto bene, grazie, non sono lontana”.
Quando l’autobus arrivò in centro, Emma scese dopo di lei. La donna camminava lentamente e la ragazza, affiancandola, la sentì parlare al telefono:
“Sì, sto arrivando”. Sì, oggi incontro i nuovi volontari, anche una ragazza dell’agenzia… non ricordo il nome, credo si chiami Emma.

La ragazza si fermò.
«Mi scusi… ha detto “Emma”?», chiese.
La donna sorrise:
«Sì. Sono la coordinatrice del centro per donne incinte in situazioni difficili. Oggi devo incontrare una volontaria per presentarla alle mamme che sono rimaste senza sostegno.
Emma si bloccò.
«Sono… io».
La donna la guardò attentamente e disse sottovoce:
«A volte aiutare inizia dalla cosa più semplice: basta cedere il posto».
Emma abbassò lo sguardo. Si sentì contemporaneamente vergognosa e vuota.
Voleva dire qualcosa, ma la donna si era già allontanata, con calma, senza rimproverarla.
E nel riflesso della vetrina, Emma vide per la prima volta non solo se stessa, ma una persona che aveva appena capito quanto fosse doloroso guardare dall’altra parte e non fare nulla.
