Una piccola orca era rimasta incastrata sugli scogli e per ore aveva gridato di dolore, implorando di essere salvata: quando i soccorritori sono arrivati, è successo qualcosa di insolito

Quel giorno il mare era agitato. Le onde grigie, simili a pesanti lenzuola, si infrangevano una dopo l’altra. Il vento fischiava, sbatteva sull’acqua, sollevando la schiuma. All’orizzonte si muovevano nuvole temporalesche, enormi e scure come montagne.

E ai piedi del promontorio roccioso, dove la costa precipitava bruscamente nel profondo, giaceva un’orca. Giovane, non ancora adulta, ma non più una cucciola. La sua pelle brillava di macchie bianche e nere, come se fossero state dipinte dalla mano di un maestro. Ma ora era ricoperta di sale, graffi e sangue. Era rimasta incastrata.

La marea l’aveva scaraventata sugli scogli appuntiti e ora l’acqua si stava ritirando. Il sole bruciava sempre più forte ogni minuto che passava. Il peso del proprio corpo le schiacciava i polmoni e ogni respiro le costava fatica. L’orca emetteva suoni lunghi e disperati, grida di dolore e richiami.

All’altra estremità del promontorio, in un piccolo insediamento, Emma, una biologa marina, una di quelle che conoscono il linguaggio dell’oceano meglio di quello degli esseri umani, la sentì. Aveva già visto molti animali in difficoltà. Ma questo suono… era diverso. Era consapevole. Come una richiesta. Emma corse verso la riva e poi alla radio.

“Abbiamo un’orca! È giovane! È sugli scogli! Abbiamo bisogno di una squadra!”

Dopo quaranta minuti arrivarono i soccorritori: una squadra di marinai, volontari e zoologi. Sapevano che se l’orca non fosse tornata in acqua, sarebbe morta. Ma lanciarla di nuovo in mare era pericoloso: si sarebbe potuta danneggiare la colonna vertebrale. Bisognava agire lentamente, con precisione, senza panico.

Stesero dei teli bagnati e delle vecchie coperte che qualcuno aveva portato da casa. Le persone le bagnarono con acqua di mare e coprirono con cura l’orca per proteggerne la pelle dal sole. Emma le bagnò la testa, il collo e le pinne. Sembrava che l’animale avesse capito che non era stato abbandonato. Il tempo passava. La marea doveva tornare. Ma troppo lentamente. Qualcuno disse:

«Non ce la farà». Ma Emma scosse la testa:

«Sta lottando. Guardatela negli occhi. Ci capisce».

E infatti l’orca guardava. Non come un animale intrappolato nel proprio istinto. Ma come un essere che aspetta, crede, spera. Il suo respiro era affannoso, con rantoli e gemiti. Ma non si agitava, non batteva la coda. Si fidava.

Passarono quattro ore. Il vento si alzò, il cielo si oscurò, si sentì odore di pioggia. Le onde cominciarono a tornare. Prima piccole, poi sempre più alte. Le persone tenevano i teli e le corde per evitare che l’onda colpisse la megattera troppo violentemente.

«Adesso… adesso…» sussurrava Emma, senza togliere le mani. E finalmente un’onda coprì le pietre con una forza che poteva essere la salvezza o la fine. Tutti rimasero immobili.

L’acqua si alzò ancora di più e toccò il corpo dell’orca. Lei sussultò. Una seconda onda e il suo corpo si spostò leggermente. Una terza e lei iniziò a nuotare. La gente gridò, felice, sollevata, ma ancora preoccupata.

L’orca iniziò ad allontanarsi in profondità… e improvvisamente si fermò. Si voltò e nuotò verso i soccorritori, così vicino che gli spruzzi d’acqua toccarono i loro volti.

Alzò la testa, guardò Emma dritta negli occhi, a lungo, con calma, ed emise un suono morbido e profondo. Lo stesso suono che sembrava un ringraziamento.

Non un grido. Non un dolore. Come un addio consapevole. E poi si allontanò lentamente verso il mare. Ma la storia non finì lì.

Qualche settimana dopo, quando Emma uscì con la barca da ricerca verso lo stesso promontorio, un’ombra emerse dalle profondità. E dall’acqua emerse un’orca ormai adulta (probabilmente con la madre al suo fianco) che emise un lungo e basso richiamo.

Emma lo sapeva. Era lei. Era tornata. Per dimostrare che non aveva dimenticato. Per dimostrare che la gratitudine non esiste solo tra gli esseri umani.

 

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