Stavamo tornando a casa a tarda sera, la strada si estendeva come un nastro grigio e liscio, mentre fuori dal finestrino la nebbia si faceva sempre più fitta. Non c’erano quasi macchine, solo qualche luce e qualche rumore sporadico. C’era un silenzio in cui i pensieri diventano sottili e rumorosi.
E all’improvviso mia moglie disse bruscamente:
“Fermati! C’è qualcosa sulla strada”.
Ho premuto il freno. I fari hanno illuminato una scena strana:
al centro dell’autostrada c’erano delle lontre. Sei lontre.
Ma la cosa più sorprendente non era questa.
Erano sedute a coppie, ogni coppia abbracciata.
Una lontra abbracciava forte l’altra, stringendosi di lato.
E accanto c’erano altre coppie uguali.
Tre piccoli batuffoli pelosi, come se fossero uniti dall’amore e dalla paura.
«Si stanno… abbracciando?» sussurrò mio figlio dal sedile posteriore.
Sì.
Questi piccoli animali si tenevano stretti con le zampe, come se avessero paura di lasciarsi andare anche solo per un secondo.
Siamo scesi dall’auto.
I passi sull’asfalto risuonavano troppo forte.
Più ci avvicinavamo, più era chiaro che in ogni coppia una delle lontre era ferita.
Una respirava a malapena.
L’altra aveva le zampe rotte.
La terza stava soffocando, il suo petto ansimava.

E i loro compagni sani non se ne andavano.
Non scappavano.
Non si nascondevano.
Rimanevano lì. Semplicemente lì.
Una grande lontra adulta dell’ultima coppia ci guardava dritto negli occhi.
E nel suo sguardo non c’era né ferocia né paura.
Solo una supplica.
Non a parole.
Ma più chiaro di qualsiasi lingua:
Non portateli via. Non lasciateli qui. Aiutateli.
Mia moglie si coprì la bocca con la mano per non emettere alcun suono.
Mio figlio piangeva silenziosamente.
“Papà… Sono una famiglia, vero?” chiese.
“Sì”, risposi. “Una famiglia”.
Ho chiamato il centro di soccorso per animali selvatici.
L’operatore ha detto:
«Proteggeteli dalle auto. Non cercate di separarli. Stiamo arrivando».
E noi ci siamo messi intorno, formando una sorta di cerchio vivente.
Lasciavamo passare le auto che procedevano lentamente, spiegavamo, mostravamo, agitavamo le braccia.
Qualcuno imprecava.
Qualcuno filmava con il cellulare.
Qualcuno annuiva in silenzio, perché a volte le parole sono superflue.
Quando sono arrivati gli esperti, si sono avvicinati lentamente, molto lentamente.
E le lontre… non si sono separate.
Non si sono abbandonate l’una all’altra.
Si sono solo abbracciate più forte.
I soccorritori sollevavano con cura gli animali feriti.
E quelli sani strisciavano dietro di loro, si stringevano, cercavano in qualche modo di trattenerli.
Non sapevo che il cuore potesse soffrire e riscaldarsi allo stesso tempo.
Una settimana dopo ci hanno chiamato.
Tutte e tre le lontre ferite erano sopravvissute.
Sono state fortunate: siamo arrivati in tempo.
«E quelli che li abbracciavano», disse la dipendente del centro, «non si allontanavano di un passo. Dormivano accanto alle barelle. Piangevano se venivano separati. Era come se capissero cosa stavano facendo».
Mio figlio ascoltava con gli occhi spalancati.
E disse una frase che ricorderò per sempre:
«Quindi l’amore non è quando è “bello”, ma quando è “spaventoso”. Ma tu sei comunque lì».
Non riuscii a rispondere.
Lo abbracciai e basta.
A volte pensiamo di insegnare ai bambini a provare sentimenti.
Ma a volte è il mondo che insegna a noi.
E a volte sono le piccole lontre sul freddo asfalto che ci insegnano a essere umani.
