Un acquazzone primaverile si è abbattuto improvvisamente sulla città. Il fiume, solitamente calmo e limpido, si è trasformato in un torrente impetuoso. L’acqua trasportava detriti, rami, rifiuti: tutto ciò che incontrava sul suo cammino. La gente stava sul ponte, riparandosi sotto gli ombrelli, e guardava con apprensione verso il basso: la corrente era così forte che nemmeno un adulto avrebbe potuto resistere per un minuto.
Tra i curiosi c’era un ragazzo, Leon Martin, di 12 anni. Magro, scalzo, con una vecchia giacca, stava tornando da scuola quando sentì delle urla. All’inizio pensò che qualcuno si fosse sentito male, ma poi vide che qualcuno stava annaspando nel fiume. Un uomo con un cappotto scuro e una cravatta si aggrappava a un tronco, ma la corrente lo trascinava sempre più lontano, verso il precipizio.
“Qualcuno mi aiuti!”, gridava qualcuno dal ponte.
“Affogherà! Chiamate i soccorsi!”, rispondevano gli altri.

Ma nessuno osava tuffarsi. Nessuno tranne Leon. Gettò via lo zaino, saltò giù dalla ringhiera e, senza esitare, si tuffò nell’acqua gelida. La gente gridò. Qualcuno cercò di afferrarlo per la giacca, ma non fece in tempo: il ragazzo era già scomparso sotto le onde.
L’acqua era come un coltello: fredda, torbida, pesante. Leon nuotò, senza fiato, finché non raggiunse l’uomo. Questi quasi non si muoveva più. Leon lo afferrò per il colletto e con tutte le sue forze cominciò a trascinarlo verso la riva. Due volte la corrente li fece cadere, ma il ragazzo non mollò la presa.
Sembrava che fosse passata un’eternità prima che riuscissero a raggiungere il fondale basso. Sulla riva c’erano delle persone: alcune filmavano con il cellulare, altre pregavano. L’uomo fu adagiato a terra e cercarono di rianimarlo. Leon tremava, aveva i denti che battevano, i vestiti appiccicati al corpo, ma non si allontanò. Quando arrivarono i soccorsi, l’uomo aveva già ripreso conoscenza. Aprì gli occhi e vide il ragazzo davanti a sé.
Lo guardò a lungo, come se non riuscisse a crederci. Poi sussurrò: «Tu… mi hai salvato la vita…». Leon annuì soltanto. Non capiva perché l’uomo salvato lo guardasse in modo così strano, come se cercasse di ricordare qualcosa. L’uomo fu portato in ospedale e il ragazzo a casa, dove sua madre, Anna Marten, lo abbracciò piangendo, incredula che tutto fosse finito bene.
Due giorni dopo, qualcuno bussò alla porta del loro appartamento. Sulla soglia c’era lo stesso uomo, ora in giacca e cravatta, ma con un braccio fasciato. Dietro di lui c’era un’auto nera. «Eri tu sul ponte, vero? Leon?», chiese con un sorriso caloroso. Il ragazzo annuì. L’uomo tirò fuori dalla tasca interna un piccolo astuccio di pelle e lo porse al ragazzo.
All’interno brillava un distintivo. «Mi chiamo Richard Holtzman, sono un agente della polizia internazionale», disse. «Abbiamo cercato tuo padre… per molti anni. È scomparso durante un’operazione». Anna impallidì. Richard continuò: «Ero il suo partner. Quel giorno stavo andando a un appuntamento per consegnarti una lettera».
La sua ultima lettera. Tirò fuori la busta, un po’ sgualcita e bagnata, ma accuratamente asciugata. Sopra c’era la calligrafia di suo padre: «A mio figlio Leon». Il ragazzo rimase immobile. Richard lo guardò negli occhi e aggiunse sottovoce: «Se non fosse stato per te, Leon… questa lettera non ti sarebbe mai arrivata».
Le lacrime scorrevano sul viso del ragazzo. Strinse la lettera al petto, mentre fuori dalla finestra si sentiva di nuovo il rumore del fiume, ora calmo, quasi gentile.
A volte il destino unisce le vite in modi che non riusciamo a comprendere. Leon voleva solo salvare uno sconosciuto, ma ha salvato una parte della sua stessa storia.
