Ho cercato di salvare un gattino che era rimasto intrappolato… ma quando mi sono chinata per tirarlo fuori, tra le sbarre ho visto qualcosa che mi ha gelato il sangue nelle vene

È successo all’inizio di ottobre. L’aria profumava già d’autunno: foglie bagnate, ringhiere arrugginite, fumo dai camini. Stavo tornando a casa dal lavoro prendendo una scorciatoia attraverso la vecchia zona industriale, dove un tempo sorgeva una fabbrica tessile. Ora ne restavano solo edifici semidistrutti, cancelli arrugginiti e un silenzio rotto solo dall’eco dei miei passi. Di solito non mi fermavo lì.

Ma quel giorno sentii un miagolio flebile e lamentoso. All’inizio pensai che fosse solo un’illusione, forse il vento. Ma il suono si ripeté, un po’ più forte, più acuto. Proveniva da dietro un vecchio magazzino, dove il terreno era ricoperto di cardi secchi e spuntavano detriti di cemento armato.

Mi sono fermata. «Miao, miao…», ho chiamato. E allora, da sotto la grata arrugginita che copriva la fossa di drenaggio, è arrivato un miagolio disperato. Mi sono avvicinata e ho visto davvero un piccolo gattino grigio incastrato tra le sbarre di metallo. Stava tirando una zampa nel tentativo di liberarsi, e i suoi occhi erano enormi e pieni di terrore.

Il mio cuore si strinse. Mi inginocchiai, mi scostai i capelli dal viso e provai a sollevare la grata: era pesante, come se fosse cresciuta nel terreno nel corso degli anni. «Zitto, piccolo… aspetta, ti aiuto…» sussurrai, spingendo con le mani. Il gattino miagolò lamentoso e si mosse di nuovo, come se volesse mostrarmi qualcosa.

E proprio in quel momento, quando mi chinai per infilare la mano tra le sbarre, lo vidi. All’inizio non capii cosa stavo guardando. Sotto il gattino, nell’oscurità della miniera, qualcosa si mosse. Pensai che fosse un ratto. Ma poi l’oscurità si diradò leggermente e da sotto uno strato di terra spuntò un volto umano.

Era pallido, coperto di sporcizia, con occhi vuoti e vitrei che mi fissavano. Ho fatto un balzo indietro, sono caduta a terra e ho sbattuto il gomito. Per un secondo non sono riuscita a respirare. Poi ho guardato di nuovo e il cuore mi è balzato in gola. Non era solo un volto. Una mano sporgeva dalla grata, come se fosse rimasta bloccata nel tentativo di uscire.

Mi alzai di scatto, afferrai il telefono e accesi la torcia. Il fascio di luce squarciò l’oscurità e vidi che sotto il gattino c’era una buca profonda, quasi un pozzo, che scendeva per circa tre metri. Sul fondo c’erano una vecchia tuta, un elmetto arrugginito e un corpo in decomposizione, ma ancora riconoscibile. Il gattino era seduto proprio sopra di esso. La paura mi fece venire la nausea.

Le mani mi tremavano così tanto che riuscivo a malapena a comporre il numero. Chiamai la polizia. Quando arrivarono, era già buio. I fari delle auto illuminarono il luogo e tutto sembrava irreale, come una scena di un film. Il gattino fu tirato fuori per primo. Piccolo e tremante, si strinse subito a me. Gli agenti hanno aperto la grata, sono scesi giù e hanno sollevato il corpo. Più tardi si è scoperto che si trattava di un operaio scomparso in quella fabbrica sedici anni prima, durante un incidente. Allora nessuno lo aveva trovato: il crollo aveva seppellito parte del tunnel e le indagini erano state interrotte.

Non sono riuscita a calmarmi per molto tempo. Il gattino è rimasto con me. L’ho chiamato Lucky, dal termine inglese che significa “fortunato”. Ma a volte, quando si siede alla finestra e guarda nell’oscurità, mi sorprendo a pensare che allora non stava semplicemente chiamando aiuto. Ha chiamato perché entrambi lo trovassero.

A volte il destino sceglie i più piccoli per svelare i segreti più grandi. E a volte il miagolio nel silenzio non è solo il richiamo di un gattino… ma l’eco del passato che finalmente ha trovato qualcuno disposto ad ascoltarlo.

 

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