Ha partorito sotto la neve, senza sperare di sopravvivere, ma all’improvviso dalla tempesta di neve sono apparsi quelli che hanno cambiato tutto…

La notte era nera come il carbone. La neve cadeva a fiocchi, il vento ululava come se volesse strappare dalla terra ogni forma di vita. Da qualche parte su una strada deserta, a decine di chilometri dalla città più vicina, c’era un vecchio minibus bloccato nella neve fino alle ruote. Il motore si era spento, la batteria era scarica.

All’interno c’era solo la debole luce di una torcia e una donna che stringeva lo stomaco. Si chiamava Emilia Brandt, trent’anni, senzatetto, sola. Il destino l’aveva logorata fino all’ultima goccia. Aveva perso la casa, il lavoro, il marito e poi anche l’ultima speranza. Ma il bambino che cresceva dentro di lei era rimasto la sua unica luce.

E ora, in mezzo al deserto innevato, quella luce era pronta a venire al mondo, nel momento più terribile. Capiva che non avrebbe ricevuto aiuto. Il telefono era scarico, non c’erano auto, le strade erano innevate. Ogni contrazione le lacerava il corpo, il respiro le usciva a sbuffi di vapore. Stendeva vecchie giacche sul pavimento, cercava di non urlare, ma il vento attutiva comunque i suoni. «Resisti, piccola… resisti ancora un po’», sussurrava tra le lacrime.

Ma le forze stavano venendo meno. Il gelo penetrava sotto i vestiti, le dita si intorpidivano, gli occhi si chiudevano per la stanchezza. Emilia quasi non sentiva più il dolore, solo un silenzioso desiderio che il bambino potesse almeno respirare… anche solo per un secondo. E all’improvviso, un rombo. All’inizio debole, poi sempre più forte. Il rombo dei motori squarciò la bufera.

Diversi raggi accecanti attraversarono il manto nevoso. Emilia alzò la testa. Dalla tempesta, come da un altro mondo, emersero dieci motociclette. Enormi moto con luci lampeggianti e motori rombanti.

Davanti c’era un uomo con una giacca di pelle con la scritta “Iron Brotherhood”. Il suo viso era coperto di brina, gli occhi socchiusi per la neve. “Dannazione, lo vedete?!” gridò qualcuno. “C’è una macchina lì!” I motociclisti si fermarono, saltarono giù e corsero verso il furgone. Uno di loro sfondò la porta. All’interno si udì un debole grido. Una donna, pallida e sudata, si stringeva lo stomaco. «Sta partorendo!» gridò uno. «Sbrigatevi, ragazzi, portate delle coperte!» Agirono senza dire una parola.

Uno di loro si tolse la giacca e la mise sotto la testa di Emilia. Un altro accese i fari di tutte le moto per creare un po’ di luce. Il terzo portò il kit di pronto soccorso. La neve cadeva tutt’intorno, ma all’interno di quel cerchio sembrava esserci un’isola di calore e determinazione. Il capo, un uomo alto di nome Marcus, si inginocchiò accanto a lei.

«Ascoltami, tesoro», disse con calma. «Siamo con te. Ce la farai». Lei lo guardò attraverso la nebbia del dolore e sussurrò a malapena:

«Non ce la faccio…». «Ce la puoi fare», disse lui con fermezza. «Ora o mai più».

Fuori ululava il vento, ma all’interno tutto sembrava essersi fermato. Diversi lunghi minuti: urla, respiri, comandi, neve, vapore, mani che le stringevano la mano… E all’improvviso: il pianto di un bambino. Puro, acuto, vivo.

Uno dei motociclisti, con le mani tremanti, avvolse il neonato in una sciarpa di seta, qualcuno gli diede la propria camicia. Emilia piangeva, incredula di sentire quel suono. «È una bambina», disse Marcus sorridendo. «Forte come sua madre». Costruirono un riparo improvvisato con le moto per proteggere la donna e il bambino dal vento.

Uno dei ragazzi contattò via radio la città più vicina e chiamò l’ambulanza. Quando i soccorritori arrivarono, i motociclisti erano ancora lì intorno, a scaldare i motori per riscaldare l’aria. Quando il medico portò via Emilia con la bambina, lei sorrise debolmente a Marcus: «Perché eravate qui?». Lui alzò le spalle:

«Ogni anno, in questo giorno, percorriamo questa strada». Oggi è il giorno in cui è morto il nostro amico. Ci fermiamo sempre dove sentiamo che qualcuno ha bisogno di aiuto.

Lei non riuscì a rispondere. Strinse solo a sé la figlia e guardò fuori dal finestrino dell’ambulanza. La neve ricominciò a cadere, ma nella nebbia bianca vide dieci luci che scomparivano lentamente nell’oscurità.

Da allora, ogni anno, all’arrivo dell’inverno, un gruppo di motociclisti veniva all’ospedale di quella città. Portavano giocattoli, coperte e caramelle per i bambini. E sempre nello stesso giorno.

Perché quella notte, nella tempesta e nella neve, erano diventati più che semplici compagni di viaggio. Erano diventati angeli della bufera.

 

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