Era mattina presto sulle pendici dei Carpazi. La nebbia aleggiava ancora tra i pini e il fiume Cheremosh scorreva impetuoso dopo la tempesta notturna. Il guardaboschi Elias Novak, un uomo di cinquant’anni dal volto stanco ma gentile, camminava lungo il sentiero controllando che nessun albero fosse caduto sulla strada dopo l’uragano. L’aria profumava di terra umida e resina, mentre sotto i piedi scivolava il fango.
Mentre camminava lungo il vecchio letto del fiume, sentì improvvisamente uno strano suono, come se qualcuno singhiozzasse. Non era un pianto umano, ma nemmeno del tutto animale. Elias si fermò e ascoltò. Attraverso la nebbia giunse un gemito sommesso e straziante.
Si fece strada tra i cespugli fino a raggiungere una grande pozza d’acqua e vide un cavallo. Selvaggio, magro, con il ventre sporco di fango. La sua zampa era intrappolata sotto un grosso tronco abbattuto dalla tempesta. L’animale tremava, gli occhi lucidi di lacrime e paura. Ogni volta che cercava di liberarsi, il tronco le schiacciava ancora di più lo zoccolo.
Elias si bloccò. Davanti a lui c’era una creatura che di solito evita l’uomo: un fiero cavallo di montagna, discendente delle mandrie selvagge dei Carpazi. Ma ora lo guardava come se fosse la sua ultima speranza.
«Calma, piccola… calma», disse piano, cercando di parlare nel modo più gentile possibile.
Si avvicinò, si tolse la giacca e gliela mise sul muso per impedirle di scalciare. Prese un ramo e cercò di sollevare il pesante tronco, ma questo non si mosse. Allora corse alla sua auto a prendere una fune e un piede di porco.
I minuti sembravano non finire mai. Quando tornò, il cavallo quasi non si muoveva più: il respiro era affannoso, gli occhi socchiusi. Elias si morse il labbro, infilò il piede di porco sotto l’albero e cominciò a tirare. Le vene gli si gonfiarono, le mani tremavano. Il fango schizzava sotto gli stivali, il sudore gli colava sul viso.
Al terzo tentativo il tronco si spostò. Il cavallo sussultò, ma cadde di nuovo. Allora Elias si avvicinò strisciando, legò il tronco con la fune, la fissò al paraurti dell’auto e inserì la marcia. Il motore ruggì e finalmente il tronco si spostò.
Si precipitò verso l’animale e liberò la zampa. La pelle era profondamente lacerata, ma l’osso era intatto. Elias prese la cassetta di pronto soccorso, lavò la ferita e la bendò. Per tutto il tempo il cavallo non oppose resistenza, come se capisse che lo stava salvando.
Quando ebbe finito, lei alzò la testa e nitrì piano, in modo appena udibile, con una sorta di gratitudine umana.
Elias rimase con lei fino a sera. Le portò l’acqua dal fiume, scacciò le mosche, le parlò con voce dolce, come a una vecchia amica. Poi, quando il sole tramontò dietro le montagne, la cavalla si alzò con cautela. Fece alcuni passi e poi si fermò. Lo guardò con uno sguardo lungo e penetrante.
Si avvicinò e gli sfiorò la spalla con il muso. Elias si bloccò, sentì il calore, il respiro, e improvvisamente capì: non era solo un animale. Era un’anima viva, grata per essere stata salvata.
Il giorno dopo tornò nello stesso posto per controllare che non si fosse allontanata troppo. Ma il cavallo non c’era. Solo tracce di zoccoli vicino all’acqua.
Passò una settimana. Elias aveva quasi dimenticato l’accaduto, quando di notte scoppiò un incendio nella foresta. Un fulmine colpì un pino secco e le fiamme si propagarono rapidamente con il vento. Il guardaboschi fu il primo ad arrivare, con una lanterna e una radio. Il vento spingeva il fumo, i rami crepitavano. Cercò di portare fuori gli animali, ma rimase intrappolato: un albero cadde, bloccando il sentiero.
All’improvviso, dal fumo si udì un nitrito familiare. Attraverso il fuoco, come se fosse emersa dall’oscurità stessa, apparve proprio quella cavalla. Gli occhi brillavano per il calore, la criniera era ricoperta di cenere. Si avvicinò, sbuffò rumorosamente e, come se avesse capito cosa fare, corse verso la radura. Elias, tossendo, la seguì.
Il cavallo correva con passo regolare, guardandosi indietro, come se lo stesse guidando. Così uscirono dal cerchio di fuoco e arrivarono direttamente al ruscello, dove erano al sicuro. Quando arrivarono i pompieri, Elias era in piedi vicino all’acqua e accanto a lui c’era la sua salvatrice.
In seguito cercò di ritrovarla. Chiese ai pastori, perlustrò i campi, installò delle telecamere, ma non la vide mai più. Solo a volte, di notte, sentiva in lontananza un nitrito sommesso e vedeva sul pendio la sagoma di un cavallo fiero, che brillava al chiaro di luna.
E ogni volta pensava:
«A volte la gratitudine non si esprime a parole. Si esprime con azioni che non si possono spiegare».

