Gli inverni nel loro villaggio erano sempre rigidi: la neve arrivava alle ginocchia, il fiume si ghiacciava già a novembre e i bambini amavano pattinare sulla superficie ghiacciata, anche se gli adulti li avvertivano continuamente: “Non avvicinatevi al centro! È sottile!”. Ma chi ascolta gli adulti quando hai otto anni, hai dei vecchi pattini e un’intera giornata di libertà?
Quel giorno un bambino di nome Thomas (se vuoi, posso cambiare il nome o eliminarlo del tutto) uscì a giocare da solo. Sua madre pensava che stesse giocando in cortile. Lui invece aveva deciso di raggiungere il fiume: per guardare il pescatore e lanciare palle di neve sul ghiaccio. Il gelo era debole, il ghiaccio in alcuni punti era grigio, ma il ragazzo ci mise comunque piede sopra.
All’inizio con cautela. Poi con più coraggio. Poi corse.
E all’improvviso: uno scricchiolio.
Uno schianto.
E l’acqua gelida si chiuse sopra la sua testa.
Il freddo era come mille aghi. Non c’era aria. Cercò di uscire, ma il bordo del ghiaccio si rompeva sotto le sue mani. Gridò chiamando la mamma, ma la sua voce si spense nell’aria gelida. Le forze lo abbandonavano.
E allora sentì un abbaio. Sordo, disperato.
Sulla riva c’era un cane magro, sporco, randagio. Lo stesso che i bambini a volte nutrivano con dei panini e che gli adulti scacciavano gridando: «Vattene, puzzone!». Corse verso l’acqua e ululò forte, disperatamente. Poi si gettò direttamente sul ghiaccio.
Il cane si sdraiò a pancia in giù, per non sprofondare, e strisciò. Raggiunse il bordo del buco nel ghiaccio. Il ragazzo non si muoveva quasi più. Il cane afferrò la sua giacca con i denti. Tirò. Scivolò indietro. Tirò di nuovo.
All’inizio non ci riuscì. Poi il ghiaccio sotto le zampe resistette un po’ e il ragazzo scivolò in superficie. Il cane continuò a tirare finché non lo tirò fuori completamente.
Non scappò. Non si spaventò. Si sdraiò accanto al ragazzo, riscaldandolo con il suo corpo, leccandogli il viso, mentre lui respirava affannosamente e piangeva allo stesso tempo.
Dopo pochi minuti, un uomo, un pescatore, corse attraverso il campo. Sentì il cane abbaiare. Vide il bambino. Vide il cane rannicchiato accanto a lui. L’uomo si tolse la giacca, coprì il bambino e chiamò l’ambulanza.
Il bambino fu salvato. Ipotermia, forte stress, ma vivo.
E il cane? Nessuno lo prese. Rimase davanti all’ospedale mentre portavano via il bambino. Rimase seduto davanti al cancello di casa loro mentre il bambino era sotto flebo. Nessuno lo chiamava, nessuno gli dava da mangiare, lui semplicemente aspettava.
Dopo tre giorni il ragazzo è stato dimesso. È sceso dall’auto, ha visto il cane e gli è corso incontro. Lacrime, risate e mani calde aggrappate al pelo ruvido.
“Mi ha salvato la vita!”, gridava il ragazzo. “Ora è nostro!”.
All’inizio la mamma è rimasta in silenzio. Poi si è avvicinata. Il cane sedeva tranquillo, immobile. Solo i suoi occhi erano caldi, color ambra. Lei sospirò e disse:
«Andiamo a casa».
Ora il cane ha un nome. Un tappetino caldo. E una ciotola. Ma soprattutto ha colui che un tempo ha tirato fuori dall’acqua gelida.
E se in inverno camminerete lungo quel fiume, vedrete: il ragazzo cammina sulla riva e accanto a lui, sempre al suo fianco, c’è il cane. Senza nascondersi. Senza scappare. Come se capisse che il suo posto è lì.

