Ho sempre pensato che il momento più terribile della vita fosse scoprire che tuo figlio è diventato genitore troppo presto. Ma mi sbagliavo. La parte più difficile è iniziata dopo.
È successo a metà settimana. Stavo lavando i piatti quando il telefono ha lampeggiato segnalando un nuovo messaggio.
“Puoi venirmi a prendere? È importante”.
Da mio figlio Leo, quindicenne. Senza emoticon, senza spiegazioni. Dieci minuti dopo era in macchina. Pallido, con le spalle curve e le mani tremanti. Ho provato a scherzare:
«Ancora un due? Hai litigato?».
Ha solo sussurrato: «Non è per me… è per lei».
Così ho scoperto. La sua ragazza era scappata dall’ospedale. Non aveva firmato i documenti. Non aveva lasciato biglietti. Era semplicemente scomparsa, lasciando una bambina appena nata. E mio figlio.
E lui? Il ragazzino che perde sempre il caricabatterie del telefono, non sa radersi bene e al mattino dimentica di fare colazione?
Quella notte era lì davanti a me, magro, spaventato, ma con uno sguardo deciso.
«Se tutti l’hanno abbandonata… allora significa che io ho bisogno di lei».
All’inizio ho pensato: shock, ormoni, impulso adolescenziale di salvare il mondo. Ma poi ha aggiunto più piano:
“Non so come si fa… ma non posso lasciarla sola”.
E in quel momento mio figlio ha smesso di essere solo un adolescente. È diventato una persona che fa delle scelte e le porta avanti.
Poi tutto si è complicato: servizi sociali, documenti, medici, telefonate. Tutti ripetevano la stessa cosa:
È troppo giovane. Non ce la farà. È impossibile.
E lui continuava a ripetere: «Ci proverò. Voglio starle vicino. È mia figlia».
Io stessa non sapevo quanto lui comprendesse cosa lo aspettasse. Ma ogni notte lo vedevo seduto accanto al lettino. In silenzio. A guardare. A volte sussurrava qualcosa. A volte le teneva semplicemente la manina.
«Non deve sentirsi abbandonata», disse una volta. «So cosa significa sentirsi di troppo».
E all’improvviso ho capito: non stava parlando solo di lei.
I primi mesi sono stati un inferno. Urla notturne, stanchezza fino alle lacrime, biberon, pannolini, paura di commettere errori.
Una volta si è seduto accanto a me e ha detto con voce stanca:
«Mamma… credo di non farcela. Lei merita di meglio».
Gli presi la mano:
«Il fatto che tu ci pensi è già un segno che ce la stai facendo. Questa è la vera responsabilità».
A poco a poco abbiamo iniziato a respirare. Ha imparato non dai libri, non dai consigli dei forum, ma con la pratica, senza il diritto di un «po’ più tardi».
E poi lei è tornata. La madre del bambino. Diversa, cambiata. Con il desiderio di ricominciare da capo. Di non scappare. Di stare vicino. Di condividere tutto, insieme.
Leo rimase in silenzio a lungo. Stava ancora imparando a convivere con il dolore, ma ora non era più solo.
E io guardavo il mio bambino diventare uomo. Colui che al mattino prepara la pappa, legge fiabe, canta ninne nanne sussurrando e poi si ferma ad ammirare ogni sorriso del bambino.
E allora ho capito:
la maturità non arriva con la data sul passaporto.
Arriva quando rimani vicino, anche se hai paura, anche se non sei pronto.


 
            




