È successo all’inizio dell’autunno, in una piccola città di provincia vicino al fiume Trent. Era una giornata uggiosa, il vento spingeva nuvole grigie e la pioggia si intensificava per poi trasformarsi di nuovo in una pioggerella sottile.
Alexander stava tornando a casa dopo il turno alla stazione quando sentì un urlo straziante. Vicino al fiume, vicino al vecchio ponte, si era radunata una folla: alcuni gridavano, altri correvano lungo la riva. E allora vide: nell’acqua turbolenta, tra i rami e i detriti, balenò qualcosa di piccolo: la mano di un bambino.
Senza pensarci due volte, si tolse la giacca e si tuffò nell’acqua gelida. Le onde gli colpivano il petto, la corrente lo trascinava giù, ma lui remava con tutte le sue forze. Il bambino fu trascinato via più volte e Alexander pensò che non ce l’avrebbe fatta. Ma alla fine lo afferrò per il cappuccio e lo tirò fuori in acque poco profonde.
Il bambino era privo di sensi, la pelle era bluastra, non respirava. Allora Alexander, tremando dal freddo, iniziò a praticargli un massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. Dopo un minuto il ragazzo improvvisamente tossì e pianse.
La folla gridò di gioia. Una donna, probabilmente la madre, corse verso di lui. Il suo volto era deformato dall’orrore e dal sollievo allo stesso tempo.
«Dio mio… mio figlio… l’hai salvato!».
Ma nella confusione Alexander si limitò ad annuire, sorrise e se ne andò, prima che iniziassero le chiacchiere e arrivassero le telecamere. Non aveva mai amato l’attenzione.
Sono passati più di vent’anni. Alexander è invecchiato, ha i capelli grigi e problemi di cuore. Vive da solo, lavora come guardiano e ricorda spesso quel giorno al fiume, anche se non sa cosa sia successo a quel ragazzo.
Una volta, in inverno, fu portato in ospedale dopo un attacco. La stanza era silenziosa, c’era odore di medicine e di neve fuori dalla finestra. I medici erano indaffarati, ma un giovane dottore, alto, con occhi gentili, si avvicinò e disse:
«Non si preoccupi, mi occuperò personalmente di lei».
Alexander sorrise:
«Grazie, dottore. Lei assomiglia a una persona che ricordo…».
Il giovane medico si fermò, poi si sedette accanto a lui.
«Mi dica… per caso viveva vicino al fiume Trent?», chiese a bassa voce. «È solo che… da bambino sono stato salvato da un uomo lì. Non so come si chiamasse».
Alexander non fece in tempo a rispondere. Il dottore aveva già tirato fuori dalla tasca una vecchia foto: un bambino piccolo avvolto in una coperta, accanto a lui un poliziotto e una folla.
«Questo sono io», disse. «E quello che mi ha salvato… Non riesco ancora a trovarlo».
Alexander rimase in silenzio a lungo. Poi, sorridendo debolmente, disse:
«Allora l’ha trovato».
Il dottore impallidì, poi si inginocchiò.
«È stato lei?», sussurrò. «Sono diventato medico per poter salvare qualcuno, un giorno, proprio come hanno salvato me».
Rimasero seduti in silenzio per molto tempo. Solo gli strumenti emettevano un leggero ronzio, mentre fuori dalla finestra cadeva la neve.
Il destino sembrava aver chiuso il cerchio: il bambino salvato un tempo dall’acqua ora salvava colui che lo aveva strappato alla morte.
Quando Alexander fu dimesso, sulla sua scrivania c’era un biglietto:
«Ora siamo legati per sempre da un unico fiume e da un unico respiro. — Dott. Michael Reed».