Mi sono svegliato e ho visto il mio sosia che preparava la colazione nella mia cucina

Non sono mai stato una persona mattiniera. La mia routine è sempre la stessa: inciampo uscendo dal letto, trascino i piedi fino alla cucina, preparo il caffè, cerco di non inciampare nel gatto. Quindi ho notato subito quando qualcosa è andato storto.

L’odore del bacon. Il rumore della padella che sfrigola. Ma io vivo da solo.

Con il cuore che mi batteva forte nel petto, ho afferrato la prima cosa che mi è capitata a tiro, una mazza da baseball appoggiata alla porta, e mi sono avvicinato silenziosamente alla cucina.

Quello che ho visto mi ha fatto gelare il sangue.

Davanti al fornello, canticchiando tranquillamente, c’ero… io.

Non uno sconosciuto. Non un ladro. Io.

Gli stessi capelli arruffati, la stessa maglietta sbiadita, la stessa cicatrice sul braccio sinistro causata da un incidente in bicicletta da bambino. Lui — era lui? — si muoveva come me, respirava come me, tamburellava sul tavolo come me quando penso.

Per un attimo ho pensato che fosse un sogno. Ma l’odore era reale. Il vapore che saliva dalle uova era reale. La mia gatta era seduta sul tavolo e ci guardava entrambi, sollevando la coda come una spazzola per bottiglie.

“Chi… chi sei?” sussurrai.

Il mio sosia si voltò lentamente. Sorrise, con il mio sorriso, solo più calmo, più acuto. «Colazione», disse. La sua voce era identica alla mia. «Siediti. Avrai bisogno di forze».

Non mi mossi. «Cosa ci fai a casa mia?»

«Non è casa tua», disse. «Non più».

Sentii le ginocchia cedere. «Chiamerò la polizia».

Lui sbuffò, con la mia risata, ma più profonda. «Fai pure. Di’ loro che il tuo doppio è entrato in casa tua».

Guardai il mio telefono sul tavolo. Prima che potessi prenderlo, il mio sosia lo spostò verso di sé, come se sapesse cosa stavo per fare. «Abbiamo poco tempo», disse. «Stanno arrivando».

«Chi sta arrivando?», chiesi.

Non rispose. Invece, mise due piatti sul tavolo. Uova, pancetta, toast. Il vapore saliva. Cotti alla perfezione, proprio come piacciono a me.

«Siediti», disse.

Rimasi in piedi. «Se sei me… dimostramelo».

Inclinò la testa, studiandomi. «Quando avevi dodici anni, sei quasi annegata nel lago. Tuo padre non è tornato a cercarti. Ecco perché odi l’acqua».

Il sangue mi si gelò nelle vene.

«Nessuno lo sa», sussurrai.

«Io lo so», disse lui. «Perché io sono te. Quello che è stato abbandonato».

La cucina sembrava più piccola. L’aria era pesante. Il mio gatto sibilava, senza distogliere lo sguardo dal mio doppio.

Mi spinse un piatto. «Mangia», ripeté. «Se non lo fai, scomparirai. Prenderò il tuo posto».

Mi allontanai, rovesciando la sedia. «Non avvicinarti a me».

Ma lui non si mosse. Si limitò a sorridere, con il mio sorriso.

E allora lo vidi: un leggero tremolio dove avrebbe dovuto esserci la sua ombra. Come il calore che sale dall’asfalto.

Batté le palpebre e il suo viso cambiò leggermente. Non era più il mio. Più vecchio. Più pallido. Gli occhi più scuri.

«Ho aspettato a lungo che ti addormentassi», disse piano. «Ora tocca a me».

E quando corsi fuori dalla cucina, la mia stessa voce mi seguì:

«Tu sei un sogno. Io sono reale».

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