Il gatto che tornò con qualcosa in più dei baffi

Tutti nel nostro quartiere conoscevano Bella, la mia piccola gattina grigia tigrata. Era il tipo di gatto che vagava nei cortili dei vicini, si arrampicava sui tetti delle auto e affascinava chiunque con una ciotola di latte. Ma un giorno scomparve. Nessuna impronta, nessun miagolio, nessuna traccia. Ho tappezzato la zona di volantini, ho camminato per i quartieri ogni notte chiamandola per nome e ho persino lasciato la sua coperta preferita sotto il portico. Passarono le settimane e cominciai a perdere la speranza.

Poi, improvvisamente come se n’era andata, Bella apparve sulla soglia di casa mia all’alba: più magra, ma con uno strano bagliore negli occhi. Non era semplicemente tornata. Era diversa.

All’inizio era impercettibile. Rifiutava il suo cibo abituale, preferendo avanzi di carne cotta che prima non toccava mai. Stava seduta per ore alla finestra, fissando il bosco dietro il nostro quartiere. E la cosa più strana di tutte era che aveva un piccolo sacchetto di pelle legato intorno al collo. Qualcuno glielo aveva messo lì.

Mi tremavano le mani mentre lo slacciavo. All’interno c’era un foglio di carta piegato, ingiallito dal tempo, ricoperto di una scrittura che non era inglese. La scrittura sembrava vecchia, strana, quasi antica. Insieme ad esso c’era una singola chiave di ottone: piccola, fredda e stranamente pesante.

Pensai che fosse uno scherzo, forse di qualche ragazzino del quartiere. Ma Bella non lasciava stare quel sacchetto. La custodiva, aggredendo chiunque si avvicinasse troppo, come se fosse suo compito proteggerla.

La curiosità mi consumava. Chiesi in giro, mostrai il biglietto ai vicini, lo pubblicai persino online, ma nessuno riuscì a identificare la lingua. Poi, un anziano signore alla biblioteca locale lo guardò e impallidì. Sussurrò che assomigliava a un dialetto usato secoli fa dai coloni della regione, qualcosa legato a fattorie nascoste e reliquie sepolte.

Quella notte, Bella sgattaiolò di nuovo fuori e io la seguii. Mi condusse direttamente nel bosco, muovendosi con inquietante precisione, come se sapesse esattamente dove andare. Raggiungemmo la vecchia quercia ai margini del letto di un torrente prosciugato e lei scalciò il terreno. Il mio cuore batteva all’impazzata mentre scavavo nel terreno a mani nude. Sotto, sentii del metallo freddo.

Era un piccolo baule arrugginito, con una serratura identica alla chiave che Bella aveva nella borsa. Il respiro mi si mozzò quando la serratura scattò. All’interno c’erano vecchie lettere, fragili per il tempo, buste sigillate legate con un nastro e una manciata di monete che non avevo mai visto prima. Era l’eredità nascosta di qualcuno, rimasta intatta per generazioni.

Bella mi sfiorò la gamba e miagolò, come se fosse soddisfatta. Allora capii che non era semplicemente tornata: era stata scelta per portare a casa questo segreto.

Conservo ancora lo scrigno e, anche se non capisco bene le parole scritte in quelle lettere, so che racchiudono storie di persone scomparse da tempo. E ogni volta che Bella si accoccola accanto a me, mi chiedo dove sia davvero andata in quelle settimane e chi, o cosa, le abbia affidato il segreto.

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